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31/03/10

Il paganesimo nel culto cristiano

di Lorenzo Natural

Nella nostra società, nonostante il lento declino del numero di Cristiani praticanti, il giorno di Natale viene visto come una ricorrenza di cui la maggior parte di noi non può fare a meno; il 25 dicembre viene festeggiato in quasi ogni casa: si va dalla cena della sera della Vigilia, allo scambio dei regali, dal rituale del pranzo con i familiari alle telefonate di auguri a parenti e amici, lontani e vicini. Non sono molti, tuttavia, coloro che festeggiano il Natale secondo i dettami della religione cristiana -sia essa cattolica, protestante, ortodossa o di qulunque altra confessione; molti, infatti, sebbene non si ritengano Cristiani praticanti, o addirittura atei, vedono il giorno di Natale, e il periodo ad esso correlato, come un'occasione di ritrovare un momento di vicinanza con le persone più care, un piacevole periodo dell'anno teso a rinsaldare i legami familiari troppo spesso dimenticati. Per altri, invece, il Natale non è altro che una festività imposta loro, ma neppure questi ultimi si esimono di partecipare alla grande caccia al regalo che imperversa la settimana precedente il 25 dicembre. Insomma, verrebbe da dire che questo giorno particolare si è talmente radicato in noi e nella nostra società, da esserne diventato parte integrante.
La levata di scudi da parte della Chiesa contro questa visione consumistica -o perlomeno distorta- del Natale arriva puntuale ogni anno: ci viene ricordato come il 25 dicembre rappresenti il giorno del Signore, la nascita di Cristo, la venuta di Dio -che si fa uomo- sulla Terra, per salvare l'Umanità dal male. Criticare negativamente chi cerca di difendere il vero -secondo lui- significato del Natale, ma anche chi vede questa data come una festività qualsiasi, esula dai propositi che si pone questo articolo: ogni singola persona avrà in merito un'opinione diversa.

Tuttavia, quando si parla di "rimando alla Tradizione Cristiana" per quanto riguarda il 25 dicembre, non si può non tenere in considerazione ciò che veramente rappresenta questo giorno, e ciò che ha significato per tutti gli uomini che hanno vissuto su questo pianeta da 5000 anni fa fino all'espansione e alla grande conversione cristina che ha investito gran parte delle terre europee e non solo, a partire dal I secolo (naturalmente tracciare una cartina ben delineata di questa conversione è di difficile attuazione, come appare difficile affermare in che proporzioni sopravvive la componente cosiddetta "pagana", fedeli agli antichi culti delle divinità naturali).
Il Cristianesimo, ma assieme ad esso altri numeorsi culti, rivendica la paternità del 25 dicembre come data-chiave per la propria dottrina: in quel giorno, 2010 anni fa, nacque Gesù Cristo, annunciato da una stella dell'Est e partorito dalla vergine Maria, e che dopo aver divulgato il messaggio di Dio assieme ai suoi dodici discepoli venne crocifisso, per poi risorgere tre giorni dopo. Ma come abbiamo già detto, numerosi altri culti fanno risalire a questa data la nascita di svariate divinità, attribuendo ad esse caratteristiche e attività svolte molto simili a quelle riconducibili alla figura di Gesù: Dioniso, divinità della mitologia trace e greca, nato il 25 dicembre da Zeus e da una vergine, crocifisso e risorto dopo tre giorni; Horus, divinità egizia nata dalla vergine Isis-Meri il 25 dicmbre, seguito da dodici discepoli -e tradito da uno di essi-, morto crocifisso e risorto tre giorni dopo; Attis, divinità frigia, anch'esso nato il 25 dicembre e risorto dopo esser stato crocifisso; Mitra, persiano, nato il 25 dicembre da una vergine, morto e risorto tre giorni dopo. Oltre a questi culti, ce ne sono decine e decine che riprendono buona parte dello schema della vita di Gesù Cristo e di queste divinità: da Zoroastro a Odino, da Baal a Quirino, da Krishna a Bali, solo per citarne i più conosciuti.
Ma tutto questo perché? Cosa ha spinto popoli così lontani tra loro e così diversi ad incentrare il culto della propria divinità seconda una griglia ben definita? Com'è possibile che il Cristianesimo abbia così tante similitudini con antichi culti, che sono stati, da sempre, definiti dalla Chiesa e dalla teologia, come credenze mitologiche e nulla più? Possibile che dietro a tutto ciò ci sia un'unica orgine?
La risposta è 'sì': tutti questi culti si rifanno senza dubbio a uno dei culti più antichi, ovvero quello del Sole, risalente alla notte dei tempi dell'umanità, e che da sempre rappresenta il culmine dell'idolatria rivolta agli elementi naturali.
Discorrendo tra le varie peculiarità che caratterizzano la figura di Cristo e di tutte le altre divinità -ma per comodità basterà rifarsi al Messia cristiano per confrontarne le similitudini- ci si accorge quanto tutte queste caratteristiche attingano alla tradizione astronomica del culto del Sole.
Innanzitutto, la scelta del 25 dicembre. Come ben sappiamo, il 22 dicembre ricorre il Solstizio d'inverno: il Sole, nell'emisfero settentrionale, tocca il punto più basso dell'anno, rendendo la notte la più lunga di tutte quelle dei 365 giorni. Tra il 22 ed il 24 dicembre, il Sole si muove in modo quasi impercettibile verso Sud, tanto da "sembrare fermo" (come fosse morto!). Curioso appare poi che questo leggero movimento non avvenga in direzione di una costellazione dal nome qualsiasi, ma bensì della cosiddtta Croce del Sud. Terminata questa fase di apparente stallo, il 25 dicembre la stella più vicina alla Terra si muove di circa un grado, non più però in direzione Sud, bensì in direzione Nord, preludendo giornate più lunghe e una luce che piano piano torna a riaffacciarsi più forte e potente nel nostro emisfero.
Ora, le similitudini che intercorrono tra la nascita di Cristo, ma soprattutto la sua resurrezione avvenuta dopo tre giorni, dopo esser stato messo in croce, e l'effettiva "nascita-rinascita" del Sole nei cieli a Nord dell'Equatore, ci appaiono sorprendenti.
Sempre per quanto concerne altri elementi correlati alla nascita di Gesù, pare indiscutibile come la tradizione cristiana abbia ripreso quella pagana.
La Bibbia e il Vangelo indicano come luogo di nascita del Messia la città di Betlemme, traduzione italiana dell'ebraico Beit Lehem, ossia "casa del pane"; la madre, Maria, invece, viene identificata come una vergine. Appare sorprendente che la costellazione della Vergine venga indicata anche come "casa del pane": infatti, la costellazione è formata da una vergine stilizzata che tiene un covone di grano, simbolo che viene associato alla vendemmia e alla mietitura. Inoltre, il simbolo che viene utilizato in astrologia per indicare questo segno zodiacale riprende un antico geroglifico egizio, che ci appare simile ad una "M": non a caso molte delle madri vergini delle divinità prima elencate hano nomi che iniziano con questa lettera (basti pensare a Maria, a Maya, a Mira...).
E sempre secondo la tradizione cristiana, la nascita di Cristo venne annunciata ai tre Magi e al popolo da una "stella dell'Est": se il 24 dicembre analizziamo un quadro astronomico, ci accorgiamo che Sirio, la stella più luminosa del cielo, si trova allineata alle tre stelle principali della Cintura di Orione -dette "i tre re", riamando evidente ai Magi-, per poi essere perfettamente in asse con la prima il giorno successivo, ossia il 25.
Di natura astronomica risulta essere anche la scelta del numero '12' come numero sacro. Considerando la figura di Gesù come metafora della divinità solare, i dodici discepoli richiamano subito i dodici mesi dell'anno attraverso cui il Sole si muove durante l'anno (ma anche i dodici segni zodiacali se vogliamo rifarci all'astrologia piuttosto che all'astronomia, tenendo conto che le due discipline sono spesso avvicinabili per quanto concerne lo studi dei culti pagani). Per rimarcare l'importanza di questo numero, basti pensare che nella Bibbia esso ricorre in muerosi episodi: sono dodici le tribù, i re ed i giudici d'Israele, i grandi patriarchi, i fratelli di Giuseppe, senza scordare che proprio a dodici anni Gesù entra nel tempio per la prima volta.
A riprova di ciò, supporta questa tesi il simbolo pagano della croce celtica (una croce iscritta in un cerchio), che erroneamente a quanto si crede, non fu utilizzata per primo da Sant'Agostino per testimoniare il sincretismo cristiano-pagano dei paesi celti, ma affonda le proprie radici, appunto, nel culto solare. La croce -che è formata da due assi che ai loro vetici indicano i due solstizi e i due equinozi- divide, infatti, in quattro sezioni -le quattro stagioni- lo zodiaco: al centro, il Sole è rappresentato con un cerchio.
Da notare che, come avevano già individuato gli Egizi, ogni 2150 ani, all'alba dell'equinozio di primavera, il Sole sorge in corrispondenza di un diverso segno zodiacale, in accordo con il fenomeno detto "precessione degli equinozi". Per compiere un intero giro attraverso le dodici costellazioni, il Sole abbisogna di 25765 anni, ossia 2150 per ogni "spostamento" di segno. Secondo gli Egizi, oggi, e per i prossimi 140 anni, ci troviamo nell'Era dei Pesci, Era che lasceremo poi per entrare in quella dell'Acquario, il segno che segue. Appare curioso che in un versetto del Vangelo di Luca, Gesù inviti il popolo a seguire "un uomo che porta una brocca d'acqua" per festeggiare la Pasqua, una volta che egli non sarà più presente: è l'invito di Gesù -tradizionalmente conosciuto come un pescatore, e adirittura simboleggiato da un pesce stilizzato- ad entrare nell'Era dell'Acquario, una volta terminata quella dei Pesci.
Ricercare le origini di una religione non ci permette soltanto di passare al settaccio tutta una serie di errori storici e di false convinzioni che ci sono state tramandate come vere: cercare di comprendere la provenienza di un culto, la sua essenza intrinseca ci aiutano a capire l'intera storia dell'umanità, e dei rapporti che -volente o nolente- sono da sempre intercorsi tra gli uomini e ciò che viene definito come divino.
Arrivare a dimostare senza margine di errore la comunanza tra una religione affermata come il Cristianesimo e culti che vengono dai più considerati come mere superstizioni legate al passato, è sicuamente molto difficile. Tuttavia riscontrare come la figura principale di una religione, ossia Gesù Cristo, ma non dimenticando tutte le altre, abbia dei punti di contatto così evidenti con un culto pagano legato a fenomeni astrologici e naturali ci deve far riflettere. Venerare il Sole, l'Aria, il Fuoco, o qualsiasi altro elemento naturale potrebbe apparire qualcosa di atavico e lontano dal nostro pensiero; ma rendersi conto che le nostre vite dipendono in buona parte da questi elementi e da questi fenomeni rappresenterebbe un bel passo avanti per cercare di carpire il significato di rispetto per la Natura che, sotto sotto, le religioni portano con sé.

27/03/10

«I now walk into the wild»

di Stefano Tieri


Un racconto di un viaggio, di una ribellione, di un incontrastabile bisogno di dire “no”. Di un viaggio: un pellegrinaggio che porterà - come vedremo, analizzandone il perché - alla meta estrema dell'Alaska. Di una ribellione: contro l'uomo e la sua morte spirituale. Del bisogno di dire “no”: alla globalizzazione, alla società dei consumi, alla massa imbelle che si trascina avanti sopravvivendo, più che vivendo. Ed è la vita che cerca un giovane ragazzo di vent'anni, non la stabilità del così detto “progresso”, portatore delle più diverse alienazioni: in un mondo in cui ci si riduce a parlare attraverso uno schermo, senza alcun contatto umano, in un'eterna simbiosi uomo-macchina, l'uomo perde lo stesso significato della sua vita, la sua dimensione sociale («happiness only real when shared», annota infatti Chris). Non avendo più a che fare con uomini, ma con automi consumistici, Chris decide di abbandonare tutto e tutti, alla ricerca di un mondo incorrotto.


Fuggire... Separarsi da quell'identità che tanto gli pesa, affinché possa trovare l'identità che gli è propria, ancora da definire. Il primo passo non può che essere quello di dare fuoco alla sua vecchia immagine, bloccata in un sorriso forzato, affiancata da dati e cifre che definiscono univocamente la sua persona. Bruciare la carta d'identità, il Bankomat, il denaro in contanti restante. Addio vecchio mondo, per il quale ora non è più nessuno, benvenuta libertà. «Libertà estrema; un estremista, un viaggiatore esteta che ha per casa la strada».
Nuova nascita, nuova vita: quella del vagabondo, uomo senza tempo, capace di rimanere ore ed ore ad osservare il lento frangersi delle onde sul mare, il volo dei gabbiani sul bagnasciuga, di sentire la voce del vento, tessendo un dialogo con lui... Questo perché non un impegno impellente scandisce la sua vita: solo il vagabondo - o lo spirito che si sente tale - ha la forza di fermarsi a contemplare, uscendo dalla logica corrotta che vede equivalenti il tempo e il denaro. Dove non c'è il tempo, il denaro non ha ragione d'essere. La velocità non è più un valore, e agli occhi del vagabondo l'affannarsi delle grandi metropoli appare folle.
Non a caso ad aspettarlo in Alaska troverà un autobus privo di ruote, e perciò immobile - ma non per questo inutile - in opposizione alla frenesia del mondo “civilizzato” che viaggia a velocità sempre maggiori, perdendo il legame con la terra sulla quale vive. Quel legame che Chris cercherà di ristabilire proprio in Alaska...


Perché l'Alaska? Qui non c'è traccia di uomo; visto cosa l'uomo è diventato, solo qui Chris - o meglio Alexander, il nome scelto per la nuova identità - potrà scoprire cosa l'uomo è in realtà: la sua natura più profonda e indomita, la riscoperta del silenzio e della seguente meditazione, la forza del vento e delle tempeste.
Solitudine come preludio di libertà, se la libertà è l'imposizione di un proprio pensiero, capace di sovrastare la miriade di non-pensieri di cui è permeata la società: è in solitudine che la mente apre le porte all'infinito, ed è il silenzio il principale alleato in questa guerra di imposizione del proprio io.
Non è soltanto questo però il motivo della scelta dell'Alaska: si viaggia per entrare in contatto con identità sconosciute ed estranee, confrontando le quali alla propria è possibile rafforzarla e delinearla meglio. In un mondo come il nostro però, governato dalle leggi della globalizzazione - la quale unifica culture e tradizioni - nessun posto può darci quella sensazione di estraniamento dinanzi al nuovo da cui scaturisce il confronto fra diverse culture. Questo perché non esistono più diverse culture, o meglio esistono ma in luoghi sempre più remoti (e non è un caso che col passare degli anni le mete dei viaggi “di piacere” si spostino sempre più lontano da casa). Dove c'è l'uomo arriva anche la globalizzazione (presto o tardi che sia); ecco allora la risposta: scegliere un luogo in cui l'uomo non c'è.


«L'apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore sugella vittoriosamente la rivoluzione spirituale»: tutto è tratto da una storia vera, una storia di una ventina d'anni fa. Eppure tutto rimane molto attuale, guardandosi attorno.

19/03/10

Ricordando don Peppino Diana


di Tommaso Ramella

Giuseppe Diana nasce nel 1958 a Casal di Principe, in provincia di Caserta. All'età di dieci anni entra in seminario, dove frequenta la scuola media e il liceo classico, quindi si trasferisce a Posillipo per proseguire gli studi di teologia e a Napoli per laurearsi in filosofia. Nel 1978 entra a far parte dell'AGESCI (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani), dove è caporeparto. Nel 1982 viene ordinato sacerdote e comincia a lavorare con gli scout d'Aversa. E' il 1989 quando Giuseppe Diana, ormai noto a tutti come don Peppino, decide di far ritorno a Casal di Principe come parroco della chiesa di San Nicola di Bari. Ha solo 31 anni don Peppino, ma ha già visto scorrere fiumi di sangue per le strade del suo paese natale: nel corso degli anni '80 nell'agro aversano è dilagata una guerra fra il cartello camorristico di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata, e quello di Antonio Bardellino, la Nuova Famiglia. E' una vera e propria "mattanza", solo tra il 1980 e il 1981 si contano 400 vittime. Dopo anni di guerra sanguinosa Antonio Bardellino prevale e fonda il clan dei casalesi. Nel 1988, un anno prima che Don Peppino torni a Casal di Principe, all'interno della Nuova Famiglia scoppia una faida che porta all'uccisione di Antonio Bardellino: a prenderne il posto alla guida del clan è Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ben presto, tuttavia, avviene una nuova scissione tra i casalesi: un gruppo di famiglie capeggiate dai De Falco si allea contro gli Schiavone, nel tentativo di prendere il controllo del clan. E' proprio mentre l'ultima guerra tra gli Schiavone e i De Falco insanguina il paese che Don Peppino arriva a Casal di Principe. La situazione è critica: ditte, appalti, polizia, comune, tutto è controllato dai casalesi. 
Don Peppino decide di reagire. Si rende conto che non è sufficiente dare conforto alle vittime, bisogna combattere la mafia, contrastarne le dinamiche di potere, i fondamenti economici, sociali e culturali. Il giorno di natale del 1991 don Peppino distribuisce a tutte le parrocchie dell'agro aversano un documento volto ad organizzare la testimonianza contro la mafia, intitolato "Per amore del mio popolo non tacerò". Don Peppino denuncia apertamente l'attività camorristica, ma non basta, lancia una forte accusa contro lo Stato connivente e corrotto, che non è in grado di fornire un modello di vita alternativo a quello mafioso. Infine, Don Peppino si rivolge direttamente alla Chiesa, chiedendo che essa non rinunci al suo ruolo profetico e si applichi concretamente e quotidianamente nella lotta contro la mafia. 
Dopo la pubblicazione di questo documento, don Peppino inizia una strenua lotta contro i casalesi: fa opera d'informazione nelle scuole in cui insegna, comincia a costruire un centro d'accoglienza per immigrati nel tentativo di sottrarli alla Camorra, attacca i riti religiosi dei quali la mafia si è appropriata. 
Nel frattempo gli Schiavone hanno preso il sopravvento sui De Falco, il cui boss Nunzio detto "o lupo" è fuggito in Spagna nel tentativo di ricostruire un impero economico. Don Peppino, con la sua attività di testimonianza e di denuncia a tutto campo, costituisce un pericolo tanto per gli Schiavone quanto per i De Falco, ma il suo zelo religioso e la sua completa estraneità alla Camorra fanno vacillare anche killer professionisti. Sembra che Don Peppino sia protetto dall'armatura impenetrabile della sua onestà, finché la mattina del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, due uomini entrano nella sua chiesa e gli sparano quattro colpi di pistola, uccidendolo sul colpo. 
Le indagini si concentrano subito attorno a Giuseppe Quadrano, un affiliato dei De Falco, e poco dopo la polizia viene contattata dallo stesso boss Nunzio: "o lupo" vuole fornire una propria interpretazione dei fatti. In un primo momento il boss nega di essere il mandante dell'omicidio di don Peppino, sostenendo che mai avrebbe potuto uccidere un amico di suo fratello Mario. Don Peppino è riuscito a convincere Mario De Falco a non entrare nel sistema della Camorra, un successo memorabile nella lotta contro la mafia, ma Nunzio ora se ne serve come alibi. Il boss dei De Falco, dopo aver dichiarato la propria estraneità ai fatti, accusa gli Schiavone dell'omicidio di don Peppino. Si diffonde così la notizia che è stato lo stesso Sandokan il mandante dell'omicidio, e la smentita del boss non si fa attendere: Francesco Schiavone fa sapere alla famiglia Diana che se dovesse mettere le mani su Quadrano prima della polizia lo taglierebbe in tre pezzi e lo getterebbe sul sagrato della chiesa di San Nicola. Contemporaneamente, i De Falco pianificano di tagliare in tre pezzi un membro degli Schiavone e di gettarlo nella chiesa di Don Peppino, per far ricadere la colpa dell'omicidio sul clan rivale. Evidentemente quello di Don Peppino è un corpo scomodo, la sua morte ingiustificabile perfino in un contesto abituato alle logiche mafiose. Si giunge infine all'arresto di Giuseppe Quadrano, il quale smentisce le parole di Nunzio De Falco e lo indica come mandante dell'omicidio. Durante gli interrogatori Quadrano cambia più volte versione, indica diversi esecutori dell'assassinio, ma soprattutto suggerisce moventi fittizi per trascinare don Peppino nel fango della Camorra ed evitare che diventi un martire. I giornali locali, controllati dalla Camorra, screditano la figura di don Peppino davanti all'opinione pubblica accennando a presunti scandali sessuali in cui sarebbe stato coinvolto e a debiti contratti con influenti membri dei clan. 
La sentenza giunge solo nel 2003: Giuseppe Quadrano e Nunzio De Falco vengono condannati all'ergastolo in quanto rispettivamente esecutore materiale e mandante dell'omicidio di Giuseppe Diana. Viene inoltre esplicitamente affermato che le insinuazioni di Quadrano hanno avuto lo scopo di depistare le indagini e di calunniare Giuseppe Diana.
Oggi, 19 marzo 2010, è il XVI anniversario della morte de Don Peppino, è il giorno del suo onomastico: ricordiamo un martire, perché la sua testimonianza non vada perduta.


15/03/10

Get lost in translation

di Eliana Arnò


Mi sono da poco soffermata sullo studio delle traduzioni italiane di titoli di film di produzione francese.
Sono tanti i commenti che si sprecano sulle traduzioni dei titoli di film. Come non citare il citatissimo caso del film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, tradotto con quella che sembra essere in Italia, e non a ragione, una commedia sentimentale: Se mi lasci ti cancello.
Un pò di tempo fa, girovagando per internet, ho letto il titolo di una tesi molto significativo: Se mi traduci mi cancello.
Questo titolo mi ha fatto riflettere su alcune cose. Cos'è un titolo? Qual è il suo obiettivo? E cosa vuol dire tradurre? Cercherò di darmi alcune risposte.
Il titolo, come la data di pubblicazione di un libro, o come il nome della traduttrice o del traduttore, è parte integrante di un'opera. E' l'elemento che, più di altri, è in grado di insinuarsi nella cultura di un paese fino a rimanerne cristallizzato in modi di dire, in forme proverbiali o idiomatiche: "Neverland è il ranch californiano di Michael Jackson, divo vistosamente afflitto dalla sindrome di Peter Pan"; "In Puglia il primo laboratorio: ma non guiderò un'armata brancaleone", titoli di articoli tratti dalla Repubblica.
Il titolo porta con sé segnali culturali, comunicativi e persuasivi, a seconda dei quali intende nominare, informare e sedurre. Le sei funzioni della lingua di Jakobson possono essere tutte indossate dal titolo, anzi, il titolo veicola con maggiore evidenza, data forse la sua caratteristica principale, la brevitas, le funzioni che assolve.
Se ci spostiamo in direzione della traduzione applicata ai titoli, è necessario considerare questa affermazione di Christiane Nord (1995: 265):

In un'ottica traduttiva, la funzionalità del titolo dell'opera originale dev'essere distinta dalla funzionalità del titolo del testo tradotto.


Questa frase riassume in maniera efficace il mio pensiero.
Se pensiamo che la traduzione consista esclusivamente nel riportare "fedelmente" il testo di partenza in una lingua diversa dall'orginale non ci troviamo d'accordo. Tradurre letteralmente, cioè parola per parola, è solo una delle strategie possibili. Nessuna strategia è migliore o peggiore di altre, per quanto alcune possono essere più consone di altre in certe occasioni. Ogni scelta traduttiva deve confrontarsi con usi e costumi di un paese, con le sue tradizioni, con la sua storia, e con la volontà comunicativa propria di ogni titolo, di ogni film e di ogni casa di distribuzione cinematografica. Mi preme ricordare che lo studio della traduzione dei titoli di film non può riguardare solo la traduzione: basti pensare che tra i fattori che più influiscono sulla scelta di un titolo, originale o tradotto, vi è il successo ai botteghini. Un principio a cui rispondono tutti i titoli, infatti, è attirare più spettatori possibile. Il titolo deve sedurre; il film dev'essere visto; chi traduce è quindi un commerciante di titoli e un conoscitore dei gusti della gente. In quest'ottica commerciale, gli aspetti che in genere riguardano la traduzione passano in secondo piano: la cosiddetta "fedeltà" al titolo originale e la funzione che questo assolve nella lingua originale.
Secondo un'ottica traduttiva, invece, bisogna chiedersi quale funzione svolga il titolo tradotto. Sono molti i casi di titoli tradotti che si allontanano dal titolo originale fino a non rendere possibile una connessione tra gli uni e gli altri. La strategia della creazione, per esempio, producendo un nuovo titolo, il quale si nutre di un rapporto nuovo col titolo originale, non presta attenzione alla "fedeltà" rispetto al titolo originale. Ma la traduzione non ha come unico scopo la "fedeltà" al testo di partenza. Sarebbe opportuno chiedersi, allora, a che cosa essere fedele: al testo di partenza o alle caratteristiche della cultura che accoglierà il nuovo testo?
La fedeltà può anche perdersi nella traduzione. Ma siamo sicuri che si tratti di traduzione infedele?

23/02/10

Del razzismo: spunti

di Andrea Tamaro

Giovedì 18/02/2010, viene presentata alla Sala della Lupa (Camera dei Deputati) la ricerca sul fenomeno della xenofobia e del razzismo, in rapporto ai giovani: emerge che, dei giovani sotto i 30 anni, il 50% è razzista.

Prima di procedere, sottolineiamo la terminologia.
Si vorrebbe far credere che il sostantivo razzismo, sia solo l' "ideologia fondata sull'arbitrario presupposto dell'esistenza di razze umane biologicamente e storicamente superiori, destinate al comando, e di altre inferiori, destinate alla sottomissione; anche teoria e prassi politica intese, con discriminazioni e persecuzioni, a conservare la "purezza" e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore" (Enc. Treccani). Questo è il razzismo istituzionalizzato e manifestatesi storicamente: nella Germania nazista, negli USA, nel Sudafrica.
Ma il razzismo si intende in modo più generico: "complesso di manifestazioni e di atteggiamenti di intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizi ed espressi, da parte di appartenenti a una comunità, attraverso forme di disprezzo ed emarginazione, nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse" (sempre Enc. Treccani). Questa seconda accezione di razzismo, è quella che ci troviamo ad affrontare in Italia.

Come sempre, le ricerche non sono certe né spesso riescono a rappresentare la realtà: sia come sia, anche se non fosse il 50%, ma il 25% ad essere razzista, o xenofoba, sarebbe già una situazione gravissima. Se i giovani cadono preda dei pregiudizi o vengono alimentati all'avversione verso lo "xenos", lo straniero, l'ospite, "quello strano", come potremo mai cercare di limitare fino ad eliminare, o quasi, questi fenomeni in Italia? Se il giovane, che dovrebbe avere una mente più aperta, libera e flessibile, grazie alla propria educazione scolastica o magari alle proprie esperienze di vita (fino alla maggiore età se ne possono avere, e tante) cade nella "morsa" dell'ignoranza magari ascoltando qualche politico o qualche partito "violento", come possiamo sperare che non accada agli adulti, magari oltremodo stressati dalla difficoltà della vita di cadere nel tranello di trovare, nello straniero, il colpevole dei propri problemi?

Perchè sono gli immigrati, a varie riprese, in vari periodi, ad essere additati come i colpevoli di questo o quel problema della società. Basta ricordare l'anno passato, il 2009: tutta la discussione sui reati commessi dai rom, gli stupri alla ribalta per un periodo sui giornali, le scelte vergognose di politica internazionale nella questione di quegli immigrati respinti in Libia. Il 2010 si è aperto con Rosarno.

Qual è la questione fondamentale? Gli immigrati compiono una quantità di lavori spesso faticosi o degradanti dal nostro punto di vista che gli italiani non farebbero? Quasi sempre. Gli immigrati arrivano qui con la richiesta d'asilo, perchè scappano da Stati dove non c'è il rispetto dei diritti umani, dove muoiono di fame o dove sono perseguitati? Quasi sempre.
Dunque perchè non aiutarli, visto che è anche un principio fondamentale della Costituzione(art.10)? Perchè dovremmo pensare, temere che un flusso migratorio, da questo o quel paese, possa mettere in pericolo(?), annientare(?), il nostro paese o la nostra cultura?

Dovremmo temere l'invasione, come è chiamata dalla Lega, e recentemente l'ha detto pure il Presidente del Consiglio, di gente che spesso soffre, che è obbligata per disperazione ad abbandonare la propria Patria?
Di solito le risposte positive si incentrano sui problemi di ordine pubblico.
Certo, capita che certi immigrati delinquano, ma esistono, per i reati, le contromisure (più o meno) adeguate, qualsiasi sia il soggetto (possono nascere dei problemi a livello di diritto internazionale, ma dovrebbe essere compito del Parlamento risolverli).

In conclusione: non si vuole sostenere che tutti gli immigrati siano in "buona fede", che nessuno delinqua, ecc. Ma nemmeno si può sperare di sostenere che poichè alcuni delinquono, tutti debbano essere "marchiati" come delinquenti, tanto più se a sostenerlo è quell' "elité" politica che non è certo immacolata, e nemmeno limpida.
Di conseguenza la tesi: gli immigrati non li vogliamo per la nostra sicurezza, è un'affermazione senza senso.

Cosa dovrebbe cambiare in Italia dunque, acciochè il razzismo si riduca e le tesi di certi partiti, vengano completamente debellate?
Prima di tutto l'educazione: nella scuola, a tutti i livelli, deve essere insegnato il rispetto alla/della diversità e perchè no, l'educazione civica, può finalmente far capire bene il significato dell'articolo 2 e 3 della Costituzione, che parlano proprio dell'uguaglianza.
Poi c'è lo Stato: dovrebbe incentivare l'integrazione, ma ciò richiederebbe un chiaro segnale a livello politico.
E naturalmente ci siamo noi, singoli individui, che possiamo cercare di far del nostro meglio per criticare o riprendere i razzisti; non servirà, ma avremo cercato di cambiare le cose.
E infine c'è un'ultima possibilità: viaggiare. Il più possibile, con mete in diversi continenti. Perchè non c'è assolutamente niente di più proficuo che vedere con i propri occhi quanto i popoli possano essere diversi nelle proprie tradizioni, costumi,... ma uguali nel semplice(magari) fatto di esser tutti esseri umani.


19/02/10

Trieste. La morte di Oberdank.

di Omar Longo.


Ogni volta che scrivo su Trieste soffia la Bora. La penna è scossa dalle raffiche, ondeggia sul foglio stendendo ciò che la città sussurra. Lungo le Rive il disco amaranto del sole si eclissa alle spalle di Venezia. I lampioni sono già accesi da quasi un'ora lungo i viali. Le auto sfrecciano zigzagando, evitando il vento e i pedoni che mani in tasca, collo ricurvo, si muovono velocemente intirizziti dal freddo.
Gli angoli del foglio svolazzano, la carta vibra.
Centinaia, migliaia di lampioni ovunque: sentinelle del giorno che rubano spazio alla notte che assedia la città. Grappoli di luce dal palo inarcato, come stanco dal peso.
E per le vie della città, ad ogni lampione, per illuminarne anche nel buio l'esempio, un Oberdan impiccato. Centinaia, migliaia di Oberdan ovunque. Le autorità hanno deciso che non bisogna dimenticare il sacrificio di un proprio figlio. In ogni luogo pubblico hanno issato la sagoma dell'eroe pendente dipinto di verde, bianco e rosso. Con il vento, a molti Oberdan sono volate le scarpe. Alcuni sono volati per intero, finiti chissà dove, magari impigliati tra i rami della pineta di Barcola. Sono casi rari: da sempre il governo si assicura di fornire corde resistenti. Sui pennoni e sulle alabarde, persino sul tettuccio degli autobus, sventola il cadavere tricolore per rinnovare quotidianamente il ricordo del martirio. L'uomo che pende dice che in molti sono morti affinché questa terra appartenesse all'Italia; dice che dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani. Le autorità lo lasciano dire; anzi lo obbligano a parlare. A nulla sono valse le proteste del comitato genitori preoccupato che i prorpi figli prendessero troppo sul serio l'esempio dell'eroe. Nei locali alla moda alcuni dirigenti di banca hanno iniziato a portare cravatte rigide rivolte verso l'alto. Oberdan fa tendenza. Piazze, vie, scuole prendono il suo nome.
Lo guardo pendere dal lampione: la luce rasente ad illuminarne il profilo, la barba poca folta, la linea delle spalle. Il vento lo muove in modo tale che sembra camminare nell'aria: un passo, il secondo, un terzo, poi indietro e di nuovo un, due, tre. Sta ballando. A mezz'aria, sospesi sopra le entrate dei negozi di Corso Italia, gli Oberdan si sciolgono in una danza macabra. Perché le autorità si ostinano a farli danzare senza posa fiaccando i giovani respiri? L'Italia, terra dell'arte e della cultura, ha molte altre salme da riesumare e da mettere in mostra. Perché non issare un Dante, un Leonardo oppure un Giordano Bruno? Il sindaco già si è espresso a favore di Oberdan perché più pratico d'appendere; ma non può essere solo questo. Perché allora? Perché Oberdan è l'unione di due culture che hanno caratterizzato Trieste: quella italiana e quella slovena, troppo spesso divise e in lui unite. Un politico mi sembra falso anche solo se respira. L'Italia è la madre di Oberdan e come tale deve celebrare il proprio figlio.
Semmai è il padre, un padre di origine veneta che lo ha abbandonato, mentre la madre, colei che gli ha dato il cognome, è slovena. Nell'Olimpo degli italiani di Trieste, il semidio italo-sloveno Oberdan doveva morire da eroe per assurgere al livello del padre, e così è stato. Secondo Elio Apih, a Trieste si ricordano due momenti nella storia dell'irredentismo: il primo periodo copre gli anni tra il 1878 e il 1882, fino alla morte di Oberdan e alla firma della Triplice Alleanza; il secondo periodo è successivo e spiccatamente antislavo. Ma il paladino dell'unione delle due culture è morto come Oberdan, non come Oberdank. Ha rinnegato il suo nome o come si usa dire lo ha italianizzato volontariamente, assetato di conformismo, per sentiri accettato in una terra che gli faceva pesare le sue origini. Appendendolo a tanti lampioni in giro per la città le autorità hanno voluto dare l'esempio del buon slavo che volontariamente si italianizza dimenticando chi è veramente.
Ora che lo guardo con più attenzione riconosco in lui non il martire impiccato, ma la pianta sradicata, le radici all'aria a rinsecchire volontariamente. La Bora abbatte gli alberi che rinunciano alle radici.
Oberdan è asceso all'Olimpo italiano, con le cervicali, zoppo, ma pur sempre eroe.

Il tifone chiamato Hack

di Giulio Rosani

Ovunque vada e con chiunque entri in contatto questo "fenomeno della natura" scombussola completamente chi l'ascolta; il prossimo ciclone che si abbatterà sugli Usa potrebbero tranquillamente chiamarlo con il suo nome. Mi sto riferendo ovviamente a Margherita Hack, professore emerito di astronomia all'Università di Trieste, che il 6 febbraio ha presentato il suo nuovo libro a "Che tempo che fa" su Rai Tre. Effettivamente più che la presentazione del libro è stato interessante ascoltare cosa avesse da dire riguardo a temi abbastanza rilevanti per il mondo della fisica come per quello della matematica. Avendo aggiunto il solito pizzico di "Hack" al discorso, risulterà un po' difficile rimanere su toni neutrali, ma cercherò lo stesso di addolcire la pillola. Intanto per chi volesse sentire l'opinione della signora Hack, senza passare attraverso il mio filtro, pubblico il link del sito di podcast della rai:

http://www.tg3.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d770d4ab-c36f-4c3f-ab24-36545e39f5ed.html?p=0

Per chi invece volesse continuare a leggere schematizzerò i contenuti dell'intervista e darò alcuni spunti di riflessione importanti secondo la mia opinione.

La prima domanda di Fazio porta subito ad un'afferazione interessante: le stelle emettono rumori e noi possimo ascoltarli con l'attrezzatura adeguata. La spiegazione sta nel fatto che le stelle emettono luce, ovvero onde elettromagnetiche, onde radio, che noi possiamo captare tramite un'antenna e riproporre come suoni. Si può così distinguere una stella come il sole, che quando è calmo (quando la sua attività è minima) emette un brusio simile al suono del vento, da una pulsar il cui suono è un continuo "bippare" con intervalli di tempo fra un bip e l'altro dell'ordine di una frazione di secondo. Piccola parentesi, le pulsare sono stelle di neutroni molto dense che hanno un campo magnetico molto esteso e perpendicolare all'asse di rotazione. Quindi a ogni giro è come se inviassero un segnale verso la Terra ogni volta che il loro asse magnetico è diretto verso di noi. La loro rotazione è così elevata da compiere più giri al secondo. Nonstante questi rumori, l'universo rimane silenzioso all'orecchio umano, perché senza gli strumenti adatti questi segnali non possono essere captati. Inoltre essendo l'universo "vuoto", il suono non si propagherebbe comunque.
In conclusione si tratta di onde radio che vengono rivelate con il suono, non di suoni veri e propri.

Entriamo ora nella seconda questione importante dell'intervista. Alla Hack viene chiesto se in Italia siamo in condizione di studiare e di fare ricerca. Molto banalmente, come penso sapranno tutti, la risposta è no, in Italia non si può fare ricerca a meno di non considerare la morte di fame o il mantenimento a vita da parte dei genitori. Infatti molti dei nostri cervelli migliori vanno all'estero a lavorare e con risultati ottimi. Quello che però interessa di quello che dice l'ospite di Fazio è che ci sarebbe un modo per far "funzionare la baracca" (come direbbe il mio prof di analisi) e che in teoria la legge sarebbe già in vigore, ma che per "problemi burocratici" non viene applicata. L'idea consiste nel fare concorsi ogni tot anni in modo da promuovere chi sta sotto nella struttura universitaria e fare spazio ai nuovi arrivati. Se dopo un certo periodo non si riesce a salire di grado, bisogna far posto ad altri. La cosa ovviamente non avviene. A parte questo la Hack sottolinea che le nostre università non sono da buttare, anzi quelle con una storia dietro sono molto, ma molto buone.

Terzo punto è la libertà o non-libertà della scienza rispetto allo stato e alla Chiesa, soprattutto. La scienza a-biologica non è più in pericolo da molto, ma la scienza biologica ancora ha dei problemi con la morale o la religione. Infatti molte ricerche importanti, quale quella sulle cellule staminali, sono ostacolate da preconcetti moraleggianti, nonostante il loro scopo sia fare del bene, come curare il cancro. Il testamento biologico è un'altro aspetto della vicenda, che risulta più difficile del dovuto per colpa di questa morale che bisogna mantenere come facciata. Se guardiamo bene, è giusto e morale privare un individuo della scelta di come voler vivere la sua vita? (Altra parentesi, purtroppo su questo argomento non posso evitare di dare la mia opinione, vorrei però che non diventasse tema di discussione, prendetela come una mia idea e basta.) Quindi la Hack sostiene la causa di una scienza più libera per un sapere più ampio e così una vita migliore, si spera.
Viene sottolineato inoltre che, cito direttamente, "gli scienziati sanno benissimo che la scienza non è in grado di spiegare tutto. Per esempio noi sappiamo ricostruire molto bene tutta la storia passata dell'universo, fino all'inizio, però se mi si domanda: perché c'è stato l'inizio? Perché c'è l'universo? Questo non lo so, è un dato di fatto che c'è, e noi lo studiamo." Quindi lo scienziato non può dare risposte al perché del mondo, egli si limita a descrivere il come, però lo fa bene.

Infine, ultimo punto, il fatto che la matematica oggigiorno sia veramente "snobbata". Soprattutto tra le mie conoscenze, molti addirittura si vantano di non capire la matematica. Questo può essere dovuto alla tradizione ottocentesca che vedeva nello scienziato l'uomo dalla mente piccola, contrapposto al filosofo che invece pensava in grande. Vorrei ora uscire dall'ambito Hack e riportare parti di una discussione tra me e Tommaso. Intanto vorrei far notare ai filosofi, che loro sono ancora al punto di partenza, perché, come mi diceva Tommaso, l'unico modo che hanno per correggere gli errori o le imprecisioni dei loro predecessori è di fare tabula rasa di tutto e ripartire da capo. Così arrivare alla fine è decisamente più difficile, meglio costruire pian piano una visione del mondo in base ai dati che ci sono stati lasciati. Visione del mondo puramente funzionale, di nuovo, nessuno scienziato pretende di dire perché esistiamo. Inoltre il fatto di vantarsi di non capire la matematica è, a mio avviso, un po' triste, in quanto la matematica altro non è che pensiero umano, logica e le sue conseguenze. Posso capire che imparare le tabelline a memoria sia noioso e volendo anche poco collegato alla matematica, che con la memoria ha poco a che fare, ma non capire il procedimento significa non capire il pensiero umano, non saper pensare o non volerlo fare. Il secondo caso è quello più frequente ed il motivo del perché ci troviamo a volte in situazioni complicatissime, quando con un po' di testa avremmo potuto evitarle. A pensare si fa fatica, ma è una cosa indispensabile se si vuole vivere al massimo la propria vita.

Concludo solo consigliando la visione dell'intervista di Margherita Hack, il cui contenuto è lungi dall'essere riassunto in questo articolo. Io personalmente trovo che possa essere un'inizio verso un'apertura alla scienza libera e supportata in Italia, se preso seriamente, si capisce.

02/02/10

Quel grande statista di Bettino

di Stefano Tieri


«Vi sono molti italiani per cui il caso Craxi è ancora, e deve restare, esclusivamente giudiziario. [...] Credo che commettano un errore. Non possiamo ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario» (Sergio Romano, Corriere della Sera, 18 gennaio 2010).
Lasciamo quindi da parte le due condanne in via definitiva, a cui faremo soltanto un breve accenno alla fine dell'articolo, e parliamo del Craxi “statista”.


Politica economica:
Il periodo di massima influenza di Bettino Craxi si può individuare dalle elezioni del 1979 a quelle del 1992. Nel 1980 il rapporto debito/Pil è pari al 56,6%, nel 1992 è praticamente raddoppiato, arrivando a 105,2%. Cos'è successo nel frattempo? Alla fine degli anni Settanza il livello del debito pubblico aveva raggiunto quote considerevoli; Craxi, salito al potere, avrebbe dovuto - da “grande statista” - far scendere la spesa al di sotto delle entrate tributarie: solo in questo modo si sarebbe stabilizzato il rapporto debito/Pil. Ebbene, la direzione intrapresa dall'allora Presidente del Consiglio fu opposta, e la spesa continuò a salire (dal 36,9% del Pil nel 1980 al 41,7% nel 1983, stabilizzandosi intorno al 42-43% nel 1992), nonostante all'epoca ci si trovasse dinanzi a condizioni favorevoli nel ciclo internazionale, che avrebbero permesso di ridurre le spese senza alcun contraccolpo nella politica interna.
L'unica spesa che si andò a ridurre fu quella destinata alle paghe dei lavoratori: il 14 febbraio 1984 infatti un decreto del governo Craxi, in seguito convertito nella legge 219/1984, abolì la “scala mobile” - l'aumento della retribuzione da lavoro in accordo all'aumento del costo della vita - la quale permetteva che rimanesse costante il potere d'acquisto. Che la manovra fosse o meno necessaria, per ragioni di bilancio, economisti e politici ne hanno discusso a lungo (e ne discutono tuttora); colpisce tuttavia che, in un periodo in cui la corruzione era già molto diffusa anche in ambienti politici, si cercò di risolvere il problema - causato in larga parte proprio dalle tangenti - aggravando il peso sulle spalle di lavoratori che agivano nella piena legalità, e non invece combattendo l'illegalità, ad esempio nella gestione dei subappalti che portava ad un aumento vertiginoso del costo per qualsiasi costruzione in suolo italiano (per maggiori informazioni si veda il capitolo “condanne”). Il denaro mangia se stesso, in una spirale sempre tesa al raggiungimento di una maggiore ricchezza.
Un'altra “soluzione” viene trovata nell'aumento delle imposte dirette, che porta ad un corrispondente aumento del Pil (da 31,4% a 41,9%, dal 1980 al 1992). La spesa però cresce ancora, e nei quattro anni di Craxi alla presidenza del Consiglio il rapporto debito/Pil aumenta di 20 punti, giungendo nel 1987 al 88,5% e al 105,2% nel 1992, anno dell'inizio di Tangentopoli e della discesa politica di Craxi (fino ad allora rimasto in posizioni di potere: erano gli anni del CAF).


Politica interna:
Tra le sue “grandi riforme”, spicca il rinnovo del concordato con la Chiesa (datato 18 febbraio 1984). Ma è stato veramente merito suo? A leggerlo, lo spirito laico da dirigente del PSI non emerge affatto (basti dare un'occhiata all'articolo 9 comma 1, dove di fatto si apre la strada ai finanziamenti pubblici alle scuole cattoliche - quindi private). Il nuovo Concordato, come rivela “La Stampa”, era già pronto prima del suo arrivo alla presidenza del Consiglio e da lui è stato solo firmato: a dimostrarlo un protocollo del 1976 sottoposto da Aldo Moro a Pietro Nenni, il quale è stato alla base - senza che ne venissero minimamente cambiate le linee guida - del nuovo concordato siglato da Craxi. «Non ho mai avvertito la presenza di Craxi se non al momento della firma», dichiara sempre a “La Stampa” Lajolo il quale si è occupato, insieme al cardinale Agostino Casaroli, della revisione del concordato. Potremmo dire, con piglio satirico, che di questa riforma Craxi sia stato un semplice prestanome; ma ci sarebbe ben poco da ridere.
Da non dimenticare poi il più grande condono che la storia italiana ricordi (anche questo volto a racimolare un po' di denaro, visti gli sperperi figli di un sistema corrotto come quello dell'Italia craxiana), una vera e propria legalizzazione degli abusi edilizî, a firma di Nicolazzi nel 1985. Se non altro perché, visto il suo lungo e tortuoso iter parlamentare, nell'attesa che la legge venisse promulgata (un anno e mezzo) nel Bel Paese sono sorte un milione di nuove costruzioni abusive.
Infine la legge Mammì (legge 223/1990), con cui le tv dell'allora imprenditore Silvio Berlusconi, le quali trasmettevano illegalmente su tutto il territorio nazionale, sarebbero state messe a norma. Legge bocciata dalla Corte Costituzionale (con sentenza 5-7 dicembre 1994, n.420) a causa dell'incostituzionalità dell'art. 15, quarto comma («Le concessioni in ambito nazionale riguardanti sia la radiodiffusione televisiva che sonora, rilasciate complessivamente ad un medesimo soggetto, a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di concessioni, non possono superare il 25% del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di tre»), nella parte relativa alla radiodiffusione televisiva: vìola infatti il principio pluralistico espresso dall'articolo 21 della Costituzione. Ma a qualcosa questa legge è servita: il “grande statista” Craxi ha infatti intascato, sui conti constellation financiere e northern holding - entrambi gestiti da Giorgio Tradati - una tangente di 21 miliardi versata dallo stesso Berlusconi.


Politica estera:
Riguardo i rapporti con i paesi esteri resta la “crisi di Sigonella” del 1985, ultimo segnale di netta contrapposizione al governo degli Stati Uniti da parte di quello italiano. Un segnale forte, visto di buon occhio da chiunque mal sopporti la politica imperialistica americana. Ma quant'è vera e profonda questa rottura con gli USA? Da un fascicolo riservato del Sisde, datato 12 giugno 1980 (quando il Psi era già da 4 anni nelle mani di Craxi) e pubblicato dall'Espresso il 7 gennaio 1994, viene riportato una vicenda interessante: prima dell'arrivo di Jimmy Carter - all'epoca presidente degli Stati Uniti - in Italia, la Cia si occupa di acquisire notizie riguardanti l'assetto politico italiano; da una «fonte solitamente bene informata» emerge che Claridge e Healy, due funzionari della Cia, si sono mostrati molto interessati riguardo il «ruolo del Psi nella situazione politica attuale». Questo particolare interessamento viene giustificato, dal Sisde, con i «consistenti aiuti da parte americana verso il Partito Socialista Italiano». Fino a che punto si può quindi parlare di opposizione all'America, se questi sono i presupposti?


Condanne:
Passiamo ora ai procedimenti giudiziarî: Craxi è stato condannato in via definitiva a 5 anni e 6 mesi di reclusione il 12 novembre 1996 - ma da luglio 1995 era latitante ad Hammamet - per le tangenti (17 miliardi di lire) pagate alla Sai nell'aprile 1992 per aggiudicarsi in monopolio l'assicurazione di oltre 120 mila dipendenti dell'Eni.
Inoltre è stato condannato (sempre in via definitiva) a 4 anni e 6 mesi il 20 aprile 1999 per le corruzioni e i finanziamenti illeciti negli appalti della metropolitana milanese e del Passante ferroviario.
N.B. In quegli anni per costruire un km di metropolitana a Milano ci volevano 192 miliardi, ad Amburgo 45.


Che quest'accenno serva da memorandum: perché se è pur vero che «non si può ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario», è anche vero che quest'epilogo non lo si può ignorare completamente. E magari dedicare al “grande statista” una via.

29/01/10

Nostalgia, estetica e sacrificio. Yukio Mishima e il sogno del ritorno del Sole Imperiale

di Lorenzo Natural




"La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre."

Ci sono personaggi che il passato ci ha donato e che ci appaiono misteriosi, difficili da decifrare. O semplicemente siamo noi a non essere in grado di comprenderne il significato e l'insegnamento che hanno lasciato tra il turbinio del veloce e inesorabile incedere della Storia. Yukio Mishima è sicuramente uno di questi: drammaturgo, scrittore di apprezzato valore, l'unico autore giapponese moderno che "fosse degno di mettere in scena le proprie rappresentazioni di teatro Kabuchi e No"; ma anche un uomo che non ha avuto paura di affrontare la morte come pegno per la fedeltà che da sempre ha donato al suo paese, il Giappone.
Sarebbe riduttivo parlare di Mishima citando le sue opere o tracciandone una mera vicenda artistico-biografica, tralasciando ciò che veramente risplende nelle coscienze di chi ha la fortuna di capirne la statura e la grandezza. Tuttavia, presumendo che non tutti abbiano presente la figura di Mishima, ritengo che un cenno alla situazione e al contesto in cui egli si inserisce sia obbligatoria.

Terminata la Seconda Guerra Mondiale con la vittoria delle democrazia statunitense e di quelle europee, il Giappone -che come ben sappiamo formava il cosiddetto asse Roma-Berlino-Tokyo in contrapposizione alle prime potenze da me citate- si ritrovava in una situazione molto delicata: da una parte gli ultimi brandelli di resistenza (eroica, ma disorganizzata) anti-americana, dall'altra un Paese devastato dai bombardamenti di Nagasaki e Hiroshima. Per evitare di cadere nel baratro dell'isolamento, il governo e l'imperatore decisero di approvare una nuova costituzione pacifista nel 1947, de facto proposta dagli Stati Uniti, paese che occupò l'ex Impero del Sol Levante fino al 1952. Il Giappone si ritrovò, così, a pagare a caro prezzo la sconfitta del conflitto: tuttavia -aiutata dagli stessi USA- la ripresa economica fu quasi immediata, facendo del Giappone uno dei pilastri dell'economia mondiale del mondo moderno.
Se questa vena progressista ha fin dal '52 mostrato il suo lato positivo, è inutile nascondere che la totale sottomissione ai vincitori ha leso in modo quasi definitivo le millenarie radici dell'Impero Giapponese, e con esse lo spirito degli uomini che avevano dedicato anima e corpo all'ideale supremo della sacralità imperiale.

E in questo humus politico, tra vecchi eroi dimenticati e giovani ragazzi con lo spirito e lo sguardo ancora rivolti alla luce del Sole a sedici raggi della vecchia bandiera dell'arcipelago, si inserisce la giovane vita di Yukio Mishima (pseudonimo di Hiraoka Kimitake).
Naturalmente le solite malelingue moraliste non hanno esitato a definire Mishima un "filo-nazifascista" (termine alquanto improprio, ma di cui si è fatto -e si fa- un uso spropositato), non riuscendo ad accettare la figura di un uomo che, nonostante la sconfitta del proprio Paese, è rimasto fedele ad esso fino all'ultimo giorno della sua vita. Mishima non era un estremista, non amava definirsi né di destra né di sinistra: era un tradizionalista, un nazionalista, un conservatore decadente, come lo definì emblematicamente Moravia. Non voleva lasciare che il Giappone si piegasse alle leggi del mercato capitalista statunitense a discapito delle secolari leggi del codice d'onore samurai e del Bushi-do: insomma, verrebbe da dire un sognatore, un romantico che non accettava di sottomettersi ai nuovi padroni, ben sapendo, in cuor suo, che la sua resistenza sarebbe risultata infruttuosa, a lungo termine.

Il primo Mishima, tuttavia, era un giovane ragazzo come tanti, impegnato in studi e attività lavorative di ambito giuridico, che ben presto scoprì non essere adatte al suo stesso ego. Yukio lasciò questa strada per intraprendere la via più dura della scrittura; in questa arte poté esprimere al meglio i propri sentimenti, che non riguardavano soltanto tematiche politiche, anzi: nei primi capolavori (Confessioni di una maschera e ancor di più in Colori Proibiti) traspare l'anima estetica dello scrittore. Tra le pagine delle sue opere s'intrecciano -con interessanti spunti autobiografici- storie di novelli Narciso, relazioni omosessuali e analisi psicologiche. Il culto della bellezza estetica divenne uno dei capisaldi di Mishima: un culto del proprio corpo talvolta esasperato, ma che coincide con l'ideale di perfezione riconducibile non solo allo spirito della cultura giapponese, ma addirittura alle Tradizioni dei perfetti fisici degli uomini e dei semi-dèi dell'Antica Grecia, a cui Yukio spesso affermò di ispirarsi.
Un'adorazione e cura del proprio corpo che lo portarono a cimentarsi nel culturismo, oltre alla pratica di numerosi arti marziali. La ricerca di un perfetto equilibrio tra estetica e interiorità, pensiero e "armatura", esteriorità e essenza furono sempre alla base della sua vita.

In Mishima, questa condotta di vita ebbe notevole influenza sull'aspetto spirituale, ma soprattutto "politico". La sua devozione quasi maniacale all'allenamento continuo del proprio corpo, portò Yukio a fondare il Tate no kai, un piccolo gruppo di fedeli guerrieri disposti a reincarnare i valori simbolo dei vecchi samurai: amore e difesa della Sacra Patria e ricerca del proprio equilibrio.
Onestà, Coraggio, Sincerità, Onore, Dovere e Lealtà: la via del guerriero che gli antichi maestri avevano tracciato, riviveva di luce splendente in Mishima e nel suo esercito. Il Sole imperiale tornava a splendere sull'Acciaio delle armature dei nuovi guerrieri giapponesi; l'Imperatore -visto come simbolo sacro alla Tradizione, e non come singolo uomo- era ancora circondato da un manipolo di uomini che avrebbero donato la loro stessa vita pur di difenderne l'ombra.

Tuttavia, a malincuore, Mishima dovette constatare come oramai il suo Paese era stato irreversibilmente corrotto dai nuovi dèi della modernità, insediatisi tra il feticismo delle merci e la cupidigia del mercato. Solo pochi continuavano a opporsi al Nuovo Giappone, lontanissimo parente di quell'ancestrale misticismo che caratterizzava il Vecchio Paese del Sol Levante.
Incapace di poter vivere in un mondo non suo, attanagliato da un sentimento di spaesamento interiore più che fisico, Mishima e gli ultimi samurai a lui fedeli decisero di urlare al Paese intero il loro ultimo grido di libertà. Occupato il palazzo dell'esercito di autodifesa, Mishima esaltò a gran voce, per l'ultima volta, lo spirito del Giappone Imperiale. Rimasto inascoltato, si tolse la vita assieme al fidato amico Morita con la pratica samurai del seppuku (da non confondere con l'harakiri). Il tutto venne ripreso dagli increduli obiettivi delle telecamere dei giornalisti, rimasti totalmente esterrefatti dalla lucidità che mantenne Mishima fino -e persino durante- il momento del suicidio.
E così il 25 novembre 1970 -data, peraltro, designata già alcuni mesi prima dallo stesso Mishima- , all'età di 45 anni Yukio Mishima decise di morire assieme al suo Paese, ormai sull'orlo del precipizio di quella modernità che lo scrittore giapponese aveva sempre combattuto. La fermezza, la calma, l'equilibrio raggiunto, permisero a Yukio di intraprendere il cammino verso la consapevolezza e la necessità della morte con una tale lucidità da spaventare qualsiasi uomo di questo tempo di mezzo della storia.
Un insegnamento a vivere e a morire che pochi uomini hanno saputo impregnare nelle vicende umane dell'ultimo cinquantennio.


Alla luce di ciò, tentare, come siamo soliti fare, di affibbiare a Mishima l'una o l'altra etichetta, non è soltanto riduttivo, ma disonorevole per un uomo, che nel Bene e nel Male, ha vissuto in funzione di un Ideale. Giudicare se sia stato più o meno sensato il sacrificio finale di Yukio non avrebbe alcun senso; come non lo avrebbero i giudizi moraleggianti su un presunto ripudio della vita da parte di Mishima.
Potrò apparire retorico, ma in un Paese depravato dalla sua essenza più viva, dalle sue Tradizioni più splendenti, dal suo fascino più occulto, Mishima ha saputo ridare vigore a tutto ciò. E se questo non è bastato per cambiare qualcosa a livello meramente pratico e politico, il suo ricordo resta indelebile in chi ha la fortuna di apprezzarne il significato, le sue gesta scolpite nella memoria della Storia, le sue opere impresse nei libri delle biblioteche.
Il sacrificio della propria vita rappresenta sì una difficile rinuncia alla volontà di "voler vivere per sempre", ma soprattutto l'ultimo atto di fedeltà a un ideale supremo, un "valore più alto del rispetto della vita. Un valore che non è la libertà, non è la democrazia, ma è il Giappone".

18/01/10

Trieste. La vecchia bambina e il passante tricentenario.

di Omar Longo


Trieste, una delle città più vecchie d'Italia, forse la più vecchia. Non come formazione, no, è l'età della popolazione che pesa. Lei è giovane, quasi una bambina, sempre impegnata a tenere a bada i suoi nonni. Tenere a bada o curare, la città è strutturata per gli anziani: un luna park per over 80 o una sorta di reparto geriatria a cielo aperto. Se il comune deve investire, investe sui vecchi, sicura fonte di voti. Essendoci sempre meno nascite, ci saranno sempre più anziani: il vero ricambio generazionale all'italiana.
Si aggirano per la città spesso silenziosi, sagome goffe nell'incedere. Da vicino, volti di corteccia nei quali rughe si dipartono dal nodo degli occhi, solcandoli alla base e appesantendone le sopracciglia, per poi discendere aggrappate alle labbra in gote avvizzite. Con movimenti lenti e cadenzati, come i loro passi, la pelle scende sul volto: turgida rugiada che si perde distruggendosi in rivoli sempre più sottili. Un carattere che ritorna bambino: non si tratta con i vecchi, quello che hanno capito in ottant'anni non puoi capirlo in meno di un trentennio. E forse è vero. Peccato che la tv ne abbia ammaccato parecchi facendoli marcire.
Chi può sapere che in mezzo a tanti uomini, proprio qui a Trieste, qualcuno non si sia dimenticato di morire, mimetizzandosi sempre più curvo tra i passanti ignari della sua straordinarietà. Un uomo piccolo, quieto, con una voce flebile, ma visibilmente allegro perché ancora in grado di attraversare piazza Unità, o piazza Grande come la chiamerebbe lui, con la tramontana, sorretto da un bastone antico con una figura equina d'avorio per impugnatura. I capelli radi che cadono ordinati quando il vento non li scompiglia. Spessi occhiali su fragili occhi. Magari puoi incontrarlo al Giardin Pubblico dove segue i minimi movimenti sotto i cespugli, sperando nel ritorno di qualche gallina. Potresti sedergli accanto e chiedere della sua gioventù, sicuro che il racconto comincerà dalla Seconda Guerra Mondiale. Ti stupiresti nel sentire il nome di Casimiro Donadoni. Chiedi chi è. E lui ti racconterebbe di quel giorno in cui l'avvocato Donadoni, tornato da Vienna, annunciò all'emporio lo statuto di Porto-Franco tra un volare di cappelli frigi. Bandiere inneggianti all'Austria si perdevano nel cielo senza nuvole. Una giornata stupenda, di quelle che nella memoria sono sempre soleggiate. Lui era lì con gli altri italiani, con il liburno, con l'istriano dell'interno, con l'ebreo, il dalmata, il greco dell'adriatico: triestini esultanti, preludio di una città multiculturale. Ti vedrebbe perplesso, farebbe un passo indietro.
Era il 1719. All'epoca Trieste era un bucaneve spuntato dal bianco della saline. Pochi abitanti, un centro di 5000 persone. Poi l'intervento di Vienna: lo statuto di Porto-Franco. Le saline si disciolsero. Come bambole di sale bagnate dall'acqua, gli aristocratici svanirono: troppo legati a terre poco redditizie. Libertà di esercitare il commercio e l'industria; miglioramento delle strutture portuali; esenzione dalle tasse; banco di assicurazione; divieto di perquisizione delle navi; permesso agli stranieri di possedere case e terreni. L'economia piroettava. Attratti dalle condizioni favorevoli migliaia di persone raggiungevano il golfo per giocare con la sorte, e lui con loro. La città diventava un crogiuolo di popoli. Attraverso le nuove vie imperiali si mischiavano le genti: ognuna con una propria cultura ad arricchire il nuovo porto-giardino della Mitteleuropa. Una città viva che cresceva alimentandosi di confronti, l'ebreo al pari del cristiano, al pari del greco-ortodosso: il rispetto delle reciproche tradizioni, corollario di un modo di essere triestino. 1781 Editto di Tolleranza. Non stavano costruendo solo una grande città, ma uno spirito nuovo, laico e cosmopolita. Alla fine del '700 Trieste contava già 30000 persone.
E se l'uomo tricentenario non raccontasse così la Trieste della sua giovinezza? Se il suo carattere si fosse inasprito col tempo? Forse sarebbe un vecchio scorbutico, stizzoso e stizzito da una Trieste culla e prigione della sua vita. Magari il suo racconto inizierebbe in un altro modo.
Era il 1719. Un nuovo mercato per l'Austria aveva portato il centro a gonfiarsi artificialmente. Le opportunità economiche favorevoli spingevano soprattutto friulani e istriani ad ammassarsi nei nascenti quartieri. La nobiltà spazzata. I nuovi ricchi gonfi di sé, ciechi a qualsiasi altra logica se non quella degli affari. Ebrei come cattolici, ortodossi come protestanti: tutti affaccendati a divorare e ad arraffare. Una borghesia laica: famiglia, denaro, risparmi, moralità e religione in vetrina, sicurezza e ancora denaro. L'onda dei traffci portava a Trieste gente d'ogni dove, la risacca faceva rifluire le culture lasciando sul bagnasciuga cittadino i ceti popolari: la maggioranza italiana, seguita da un'esigue minoranza di burocrati tedeschi, di ebrei, di greci e una forte componente di sloveni. Avevano forse meno etnie le altre città commerciali? La cultura italiana cercava di uniformare le altre attraverso una sistematica deculturalizzazione e omologazione. Non era una città cosmopolita, era una città artificialmente retta grazie ad un progetto viennese, dedita all'economia, non alla tolleranza, ma all'indifferenza verso tutto ciò che non avesse a che fare con i soldi. Una città cresciuta nei valori del cosmopolitismo non avrebbe, due secoli dopo, fatto falò del Balkan. Trieste: non incontro, ma scontro di popoli.
Non lo so, magari non la racconterebbe nemmeno così, con tanto rancore. Forse perché la verità non sta né nella città cosmopolita (mito romantico secondo Elio Apih), né nell'unicità economica della sua cultura.
Non lo so, magari la verità si è imborghesita: odia gli estremi, si nutre dei suoi miti e soggiorna in una mediana fissità, a volte poco attraente.

15/01/10

L'evoluzione della fisica

di Giulio Rosani

Come promesso nello scorso articolo ho letto il libro di Einstein ed Infeld. Devo dire che prima di iniziarlo pensavo sarebbe stato il solito libro sulla fisica, spiegato in modo chiaro, ma forse non molto semplice, visto l'importanza dell'argomento. Fattore inoltre poco invitante alla lettura erano le formule matematiche che vi sarebbero dovute comparire. La fisica è una scienza esatta e come tale ogni risultato di qualsiasi esperimento deve essere approssimato da una funzione matematica. Bene, ora che ho finito la lettura posso rassicurare chiunque voglia leggere questo fantastico volume sulla fisica: la comprensione di ciò che viene spiegato non è affatto impossibile e di formule matematiche non c'è neanche l'ombra. Già nella prefazione gli autori assicurano di non voler far uso della matematica e di avere come unico scopo quello di rendere più chiari alcuni aspetti della fisica ancora oscuri a molti. L'unico requisito che il lettore deve avere, proseguono i due fisici nella prefazione, è quello di possedere buona volontà e di essere disposto a comprendere i ragionamenti fatti nei vari capitoli.



Il libro è suddiviso in quattro parti:


Parte Prima:L'ascesa dell'interpretazione meccanicistica


Il libro si apre paragonando la fisica ad un romanzo giallo perfetto, in cui non si può saltare alle ultime pagine per scoprire chi è l'assassino. La ricerca del fisico si basa su supposizioni e sulla ricerca di prove a favore di queste. Dunque la prima cosa da fare è osservare e interpretare. Grazie a questo processo si giunge al primo indizio, a partire dal quale si costruirà una teoria. Nota bene, l'indizio non sempre porta alla teoria giusta solo perché è stato scoperto.
Dopo questa prima introduzione vengono presentati i vettori, il concetto di moto, la massa, grandezza fisica lasciata in disparte per molto tempo. Grazie a questi concetti si poté enunciare la teoria meccanicistica della realtà, ovvero che il mondo si "muove" perché delle forze agiscono sulla materia, componente unica della realtà. Viene descritto insomma come grazie alla conoscenza di alcuni fattori, come velocità e posizione, si possa prevedere la posizione futura della particella che si sta studiando.


Parte seconda: Decadenza dell'interpretazione meccanicistica


In questa parte viene descritta la teoria dietro all'elettromagnetismo e alla termodinamica. Ancora si cerca di adattare l'idea meccanicistica all'ambito di studio, ma ci si comincia a rendere conto che sorgono alcuni problemi, soprattutto con lo studio della luce. Siccome essa si propaga anche nel vuoto, non si può trattare di un'onda, visto che per propagarsi essa avrebbe bisogno di materia. L'onda non è altro che un cambiamento di stato della materia. Il suono si propaga perché c'è aria che vibra, nel vuoto non c'è suono. Molti esperimenti però dimostrano che la luce deve essere simile ad un'onda, altrimenti alcuni suoi comportamenti non si potrebbero spiegare. (Non entro nei dettagli perché la questione diventerebbe abbastanza intricata.) Si inventa dunque l'etere, ma anche in questo caso la sua definizione risulta macchinosa e non ben definita. La concezione meccanicistica entra così in crisi.


Parte terza: Campo, Relatività


Viene introdotto il concetto di campo, che esercita delle forze sulle particelle.Tutto quello di cui si è già parlato prima viene riletto introducendo il campo (descritto nel mio articolo di dicembre 2009).Si arriva infine alla teoria della relatività. Non vorrei inoltrarmi oltre in quest'ambito se non per due punti importanti. Il primo è che secondo la relatività, due sistemi di riferimento in moto uno rispetto all'altro a velocità prossime a quelle delle luce possono avere "tempi" diversi. Infatti se collochiamo due orologi nei due sistemi, noteremo che il tempo segnato dai due è diverso una volta che i due sistemi sono in movimento, nonostante i due cronometri siano stati precedentemente sincronizzati. Questo aspetto ci riconduce all'articolo precedente in cui Lee Smolin decretava che lo scorrere del tempo è uguale per ogni punto dell'universo, sia esso in moto o no. Non so dire chi abbia ragione, ma la cosa si fa interessante. Il secondo punto è la massa-energia, che lega appunto massa ed energia ad un unica "sostanza". Secondo questa teoria la massa è un condensato altissimo di energia, e l'energia è una minima parte della massa. Sostanzialmente un corpo caldo pesa di più di quando è freddo, ma la variazione di peso è infinitesimale. Lo stesso vale per un corpo in moto rispetto al suo stato di quiete.


Parte quarta: Quanti


Di questo ultima parte vorrei anticipare il minimo possibile. Dico solo che l'idea di conoscere posizione, velocità e traiettoria future grazie a dati conosciuti decade definitivamente. In questo caso o si conosce la posizione o la velocità o la traiettoria, ma mai tutte insieme. Inoltre più che la posizione precisa si conosce la posizione probabile. Stessa cosa per velocità e traiettoria. (Si sta parlando di particelle elementari in moto.)


So di essere stato poco profondo nell'esposizione, ma quello che Einstein e Infeld hanno sintetizzato in 273 pagine, non credo di essere in grado di riprodurre in due. Invito quindi chiunque fosse interessato a leggere il libro e a continuare ad informarsi su questa bellissima materia. Il Titolo è "L'evoluzione della fisica" e merita davvero una lettura.

14/01/10

Che cos'è la globalizzazione?

di Andrea Tamaro

Questo non è propriamente un articolo. Ricopierò quanto scritto nel libro di "Diritto costituzionale", Roberto Bin-Giovanni Pitruzzella, Giappichelli Editore, che cerca di dare una "semplice" spiegazione su cosa sia la globalizzazione (e come funzioni) e il rapporto col territorio e la sovranità dello Stato. In questo modo, una discussione su questo tema, potrà essere condotta con una maggiore chiarezza.



"L'indebolimento del controllo che, nell'attuale momento storico, lo Stato esercita sul proprio territorio è da collegare soprattutto all'affermazione di quella che viene chiamata globalizzazione, cioè la creazione di un mercato mondiale in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all'altro.
Alla base della globalizzazione dell'economia stanno soprattutto i seguenti fattori:


  • il progresso tecnologico nel campo dei trasporti, che rende sempre più facile ed economico lo spostamento dei beni da un luogo all'altro;
  • la "smaterializzazione" delle ricchezze tradizionali, attraverso la cosidetta "finanziarizzazione" dell'economia, che sempre di più si basa sulla proprietà e lo scambio di risorse finanziarie piuttosto che sul possesso di beni materiali;
  • l'accresciuta importanza strategica ed economica di altri "beni immateriali", come la conoscenza e l'informazione;
  • lo sviluppo dell'informatica e la creazione di reti telematiche, che rendono possibile il rapidissimo spostamento di informazioni e di capitali da una parte all'altra del Pianeta;
  • lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente da un luogo all'altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse (si pensi ad alcune imprese leader nel settore dell'abbigliamento, che insediano i centri di disegno dei capi e le strutture che curano il marketing nel cuore dell'Europa, in modo da utilizzare le migliori risorse umane in questi campi, mentre la lavorazione degli indumenti avviene in Paesi extraeuropei dove il costo della manodopera è più basso).
Dalla globalizzazione dell'economia discendono numerose conseguenze. Anzitutto le risorse più importanti, è cioè il capitale finanziario, le informazioni e le conoscenze, che per loro natura non sono legate al territorio (si dice perciò che l'economia si è "deterritorializzata"), si spostano da un luogo all'altro, e perciò anche da uno Stato all'altro, alla ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo pressochè integralmente al controllo dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese al di fuori dei loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all'interno del territorio dello Stato (si pensi alla decisione dei grandi investitori di realizzare vendite massicce dei titoli del debito pubblico di un determinato Stato, mettendone in crisi la liquidità, determinando un rialzo dei tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato; oppure si pensi alle conseguenze, sul livello dei prezzi, e perciò sul tasso di inflazione, delle decisioni prese dai Paesi produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali - questi esempi sono alla base delle nozioni del corso di economia NdT). In terzo luogo, si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e, in questo modo, per aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel loro territorio. Infatti, la velocità e la facilità di spostamento dei principali fattori produttivi fa sì che essi tendano ad allocarsi in quelle aree territoriali dove incontrano regole legali, sistemi fiscali, amministrazioni pubbliche e qualità del capitale umano, tali da rendere più conveniente l'attività.
Ciò significa che gli Stati si trovano davanti ad un'alternativa secca: o chiudere le proprie frontiere agli scambi con l'esterno, esponendo il Paese al rischio dell'impoverimento, oppure garantire la piena libertà di movimento dei capitali, beni e servizi, accettando così di conformarsi alla logica del mercato globale ed alla competizione tra aree territoriali. Ma l'adesione alla seconda alternativa comporta una certa riduzione delle scelte politiche consentite allo Stato. Infatti, gli operatori interni ed internazionali fanno confluire i propri capitali nel territorio di uno Stato finchè vi siano sufficienti prospettive di guadagno, e cioè non solo regole convenienti, disponibilità di infrastrutture, amministrazioni efficienti, ma anche una pressione fiscale tollerabile, un bilancio pubblico sano, un uso efficiente delle risorse pubbliche. Lo Stato è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che ritiene più opportuni, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e, quindi, a seguirne indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale.
In conclusione, non è più vero che lo Stato abbia piena sovranità sul suo territorio, tanti essendo i condizionamenti provenienti dai mercati internazionali."

Per definizioni di natura economica di termini riportati, in caso di necessità, le trovo velocemente sul libro di economia.

Questa è la globalizzazione. Giusta? Sbagliata? Io non credo si debba riflettere in questi termini. E' il modo in cui si è evoluta l'economia, e come ho già sostenuto e credo, se è così, è perchè gli uomini hanno così scelto. Si può criticare in certi suoi aspetti, certo. Ma bisogna forse ricordare, e questo è inconfutabile, che proprio la globalizzazzione permette agli Stati poveri di crescere. Nel momento in cui la conoscenza tecnologica si sposta, gli Stati poveri la possono ottenere e sviluppare, in modo tale che le differenze rispetto ai ricchi si assotiglino. Anche questa è una delle tante facce della globalizzazione.

09/01/10

Wikipedia: no comment?

di Andrea Tamaro



Prendendo spunto dal giudizio lapidario riportato nel titolo su "Wikipedia, l'enciclopedia libera", desidero riflettere un po' sul valore o meno di questo sito, visitato quotidianamente da 60 milioni di persone, e dell'idea del progetto in sé.


  • Iniziamo dalle questioni di fondo che permeano le critiche a wiki. : autorevolezza e libertà.

Wikipedia (e i suoi progetti trasversali) permettono a chiunque, dotato di un computer, di aggiungere, togliere o modificare la definizione o le informazioni di qualsiasi (o quasi) voce. Ciò dunque comporta che chiunque, sia esso dotato o meno di nozioni su un dato argomento, possa trasformare, sia in meglio sia in peggio, il lavoro di altre persone.

A questa scelta di libertà si collega l'autorevolezza: le voci, come vengono presentate, senza essere curate da esperti, non hanno nessun valore accademico. Di conseguenza citare una voce in una tesi di laurea, sarebbe quanto mai sbagliato e controproducente.
Queste due, del tutto veritiere, affermzioni conducono alla bocciatura di questo strumento?

Ovviamente no.



  • Abbiamo visti i limiti di wikipedia. (Difetti, tra l'altro, insormontabili?) Ora vediamo i pregi.

Difficile a crederlo, ma il primo pregio è la libertà. Un controsenso? Tutt'altro.
Quella libertà che conduce ad una pericolosa esposizione all' "esterno" permette nel contempo di usufruire di una merce rara: la neutralità.
Su tante voci, e quindi temi, controversi, la discussione e la possibilità che tutti inseriscano i vari punti di vista, portano ad una visione complessiva dell'argomento.
Es. Aborto: definizioni, dibattito etico, storia, legislazione e così via
Tutto ciò porta ad una comprensione non viziata: tesi degli abortisti come quelle delle religioni come la posizione del legislatore.




  • Tenendo presente l'esempio, passiamo ad altra considerazione: il tempo. Una enciclopedia online permette di essere aggiornata quasi istantaneamente rispetto all'evento accaduto.

Viene scoperta una nuova formula chimica per la pillola abortiva? Al massimo poche ore dopo la notizia è riportata sulla voce online.
E se questo sembra di poca importanza rispetto alla voce enciclopedica, bisogna ricordare che wikipedia non è solo una tradizionale enciclopedia: ha funzione di almanacco, di dizionario geografico, artistico, filmografico, di cronaca dei fatti di attualità.




  • Ho citato prima la critica sull'autorevolezza: anche se le voci non sono curate da esperti, ciò non toglie che possano avere un valore culturale od informativo.

Per vari motivi:

  1. Bisogna controllare le Note. Possono riportare le citazioni di libri autorevoli sull'arogomento trattato, oppure articoli di giornale e via così. Tutto ciò rende la voce più accreditata.


  2. Bisogna controllare i Collegamenti esterni. Spesso sono link a siti assai autorevoli. Conseguentemente la voce magari può essere anche "infettata" ma il sito a cui si rimanda certamente no. (se leggo riguardo la Carta Costituzionale e voglio l'opinione autorevole vado al link del Quirinale.it)


  3. Si può anche vedere come si è evoluta la voce: le voci vengono discusse, e tutti i passaggi di trasformazione salvati, in modo tale che in caso di malafede (o ignoranza) di qualcuno, si possa tornare indietro.


  4. Bisogna ricordare infine la cosa più importante: date voci sono trattate da veri esperti. Si vedono subito dall'ampiezza e dovizia di particolari in cui sono declinate. Provare per credere: "Esperanto".

E wikipedia può diventare perfino fonte per una tesina magari, basta utilizzarla correttamente: come? Incrociando le informazioni. Prendi varie fonti su un dato argomento o parola, e le confronti. Se vedi molte coincidenze sulla voce di wiki, vuol dire che è fatta bene.
Una questione forse non viene rilevata opportunamente quando si tratta del valore o meno di wiki. : la maggior parte delle persone non è abbastanza ricca per poter comprarsi un'enciclopedia. Quelle serie, ovvero dotate di una provata autorevolezza, costano. Questa considerazione materialistica per dire cosa? La maggioranza delle persone, non hanno la possibilità (lasciando stare la volontà) di poter sfruttare questo strumento culturale: wikipedia è una sincera via di mezzo.
Bisogna comunque ricordare sempre: usare con cautela.
Ma i pregi non sono finiti.
L'altra sera ho avuto la fortuna di andare ad uno spettacolo teatrale molto bello, che mi ha colpito, oltre per la bravura dei recitanti e l'importanza del tema trattato, per la musica. Soprattutto "Lascia ch'io piango". Appena l'ho sentita, mi son detto: devo scoprire da dove proviene. Sulla "normale" enciclopedia ovviamente non ho trovato nulla di così generico. Su wiki. invece, tempo due secondi, ho scoperto che è un'aria dall'opera Rinaldo di Georg Friedrich Handel. Che importanza ha?
Ha tutta l'importanza del mondo, secondo me. Cos'è che fa progredire culturalmente, ad un certo punto, l'uomo se non la sua curiosità? Wikipedia permette di dar anche sfogo alle curiosità e nello stesso tempo può far nascere nuovi interessi.
C'è infine una questione che forse si dimentica: il collegamento con le le lingue straniere. Questo comporta vari benefici: una maggiore esposizione di argomenti (soprattutto in inglese) che magari non sono abbastanza ben trattati nel dettaglio nella propria lingua; ci si esercita con la lettura e si ha la possibilità di trovare la traduzione di parole che su un dizionario italiano-inglese "normale" non è possibile trovare in modo rapido e preciso. Es. il nome di qualche uccello assai poco conosciuto: scrivo il nome italiano, ho il link a quello inglese.

Wikipedia, fonte di cultura popolare e di cultura della curiosità; utopica rappresentazione di come il mondo dovrebbe essere: un mondo dove le lingue, come i popoli, non siano in conflitto, ma legate dallo stesso scopo, il dialogo.