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18/01/10

Trieste. La vecchia bambina e il passante tricentenario.

di Omar Longo


Trieste, una delle città più vecchie d'Italia, forse la più vecchia. Non come formazione, no, è l'età della popolazione che pesa. Lei è giovane, quasi una bambina, sempre impegnata a tenere a bada i suoi nonni. Tenere a bada o curare, la città è strutturata per gli anziani: un luna park per over 80 o una sorta di reparto geriatria a cielo aperto. Se il comune deve investire, investe sui vecchi, sicura fonte di voti. Essendoci sempre meno nascite, ci saranno sempre più anziani: il vero ricambio generazionale all'italiana.
Si aggirano per la città spesso silenziosi, sagome goffe nell'incedere. Da vicino, volti di corteccia nei quali rughe si dipartono dal nodo degli occhi, solcandoli alla base e appesantendone le sopracciglia, per poi discendere aggrappate alle labbra in gote avvizzite. Con movimenti lenti e cadenzati, come i loro passi, la pelle scende sul volto: turgida rugiada che si perde distruggendosi in rivoli sempre più sottili. Un carattere che ritorna bambino: non si tratta con i vecchi, quello che hanno capito in ottant'anni non puoi capirlo in meno di un trentennio. E forse è vero. Peccato che la tv ne abbia ammaccato parecchi facendoli marcire.
Chi può sapere che in mezzo a tanti uomini, proprio qui a Trieste, qualcuno non si sia dimenticato di morire, mimetizzandosi sempre più curvo tra i passanti ignari della sua straordinarietà. Un uomo piccolo, quieto, con una voce flebile, ma visibilmente allegro perché ancora in grado di attraversare piazza Unità, o piazza Grande come la chiamerebbe lui, con la tramontana, sorretto da un bastone antico con una figura equina d'avorio per impugnatura. I capelli radi che cadono ordinati quando il vento non li scompiglia. Spessi occhiali su fragili occhi. Magari puoi incontrarlo al Giardin Pubblico dove segue i minimi movimenti sotto i cespugli, sperando nel ritorno di qualche gallina. Potresti sedergli accanto e chiedere della sua gioventù, sicuro che il racconto comincerà dalla Seconda Guerra Mondiale. Ti stupiresti nel sentire il nome di Casimiro Donadoni. Chiedi chi è. E lui ti racconterebbe di quel giorno in cui l'avvocato Donadoni, tornato da Vienna, annunciò all'emporio lo statuto di Porto-Franco tra un volare di cappelli frigi. Bandiere inneggianti all'Austria si perdevano nel cielo senza nuvole. Una giornata stupenda, di quelle che nella memoria sono sempre soleggiate. Lui era lì con gli altri italiani, con il liburno, con l'istriano dell'interno, con l'ebreo, il dalmata, il greco dell'adriatico: triestini esultanti, preludio di una città multiculturale. Ti vedrebbe perplesso, farebbe un passo indietro.
Era il 1719. All'epoca Trieste era un bucaneve spuntato dal bianco della saline. Pochi abitanti, un centro di 5000 persone. Poi l'intervento di Vienna: lo statuto di Porto-Franco. Le saline si disciolsero. Come bambole di sale bagnate dall'acqua, gli aristocratici svanirono: troppo legati a terre poco redditizie. Libertà di esercitare il commercio e l'industria; miglioramento delle strutture portuali; esenzione dalle tasse; banco di assicurazione; divieto di perquisizione delle navi; permesso agli stranieri di possedere case e terreni. L'economia piroettava. Attratti dalle condizioni favorevoli migliaia di persone raggiungevano il golfo per giocare con la sorte, e lui con loro. La città diventava un crogiuolo di popoli. Attraverso le nuove vie imperiali si mischiavano le genti: ognuna con una propria cultura ad arricchire il nuovo porto-giardino della Mitteleuropa. Una città viva che cresceva alimentandosi di confronti, l'ebreo al pari del cristiano, al pari del greco-ortodosso: il rispetto delle reciproche tradizioni, corollario di un modo di essere triestino. 1781 Editto di Tolleranza. Non stavano costruendo solo una grande città, ma uno spirito nuovo, laico e cosmopolita. Alla fine del '700 Trieste contava già 30000 persone.
E se l'uomo tricentenario non raccontasse così la Trieste della sua giovinezza? Se il suo carattere si fosse inasprito col tempo? Forse sarebbe un vecchio scorbutico, stizzoso e stizzito da una Trieste culla e prigione della sua vita. Magari il suo racconto inizierebbe in un altro modo.
Era il 1719. Un nuovo mercato per l'Austria aveva portato il centro a gonfiarsi artificialmente. Le opportunità economiche favorevoli spingevano soprattutto friulani e istriani ad ammassarsi nei nascenti quartieri. La nobiltà spazzata. I nuovi ricchi gonfi di sé, ciechi a qualsiasi altra logica se non quella degli affari. Ebrei come cattolici, ortodossi come protestanti: tutti affaccendati a divorare e ad arraffare. Una borghesia laica: famiglia, denaro, risparmi, moralità e religione in vetrina, sicurezza e ancora denaro. L'onda dei traffci portava a Trieste gente d'ogni dove, la risacca faceva rifluire le culture lasciando sul bagnasciuga cittadino i ceti popolari: la maggioranza italiana, seguita da un'esigue minoranza di burocrati tedeschi, di ebrei, di greci e una forte componente di sloveni. Avevano forse meno etnie le altre città commerciali? La cultura italiana cercava di uniformare le altre attraverso una sistematica deculturalizzazione e omologazione. Non era una città cosmopolita, era una città artificialmente retta grazie ad un progetto viennese, dedita all'economia, non alla tolleranza, ma all'indifferenza verso tutto ciò che non avesse a che fare con i soldi. Una città cresciuta nei valori del cosmopolitismo non avrebbe, due secoli dopo, fatto falò del Balkan. Trieste: non incontro, ma scontro di popoli.
Non lo so, magari non la racconterebbe nemmeno così, con tanto rancore. Forse perché la verità non sta né nella città cosmopolita (mito romantico secondo Elio Apih), né nell'unicità economica della sua cultura.
Non lo so, magari la verità si è imborghesita: odia gli estremi, si nutre dei suoi miti e soggiorna in una mediana fissità, a volte poco attraente.

2 commenti:

Lorenzo Natural ha detto...

Ancora una volta Complimenti, Omar. Un fermo immagine in movimento: spettacolare.
Pregi e difetti di una città a mio modo di vedere unica.

Ps: penso che volevi scrivere "liburni" e non "viburni" :)

ps2: ancora complimenti

Tommaso Ramella ha detto...

ahah viburni è poetico però ^^