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19/11/09

Sull'Identità: spunti per una riflessione


di Matteo Giurco


“Il radicamento è forse l'esigenza più importante e misconosciuta dell'anima umana”.
-Simone Weil, La prima radice, Comunità, Cremona, 1954, pp. 49-50-


La società contemporanea e la disperazione dello sradicamento
La società contemporanea è assai variegata. Per accorgersene basta addentrarsi in quella giungla di individui che è il mercatino rionale sotto casa: balza alla nostra vista un melting-pot di persone con culture e storie assai diverse. Vi troviamo infatti la vecchietta della porta accanto ed il commerciante autoctono, il giovane freakkettone inebetito dagli spinelli e l'immigrato di seconda generazione, il vu cumpra africano e la badante rumena eccetera eccetera...
L'elemento che accomuna queste persone, oltre all’ appartenenza al genere umano, non è la cultura, e nemmeno la religione. Si tratta invece della perdita di una salda Identità, favorita dalla globalizzazione imperante: la vecchietta è persa in rigidi nostalgismi, il commerciante rimpiange i bei tempi e auspica la chiusura delle frontiere, il freakkettone sogna un viaggio in India perchè è disgustato della realtà italiana, l'immigrato di seconda generazione è costantemente sospeso tra l'identità del paese d'origine e quella del Paese che lo ospita, e lo stesso si può dire del vu-cumpra e della lavoratrice rumena.
Casi segnati dalla perdita di radici, accomunati dall'appartenenza ad una società dove perdura un sistema valoriale allo scatafascio, nel quale i punti cardine un tempo imprescindibili sono venuti meno, dove parole-chiave come Patria e Famiglia, Dio e Partito hanno lasciato il posto alla società dei consumi, estremamente più proficua per quanto riguarda l'opulenza materiale ma drammaticamente povera sotto l'aspetto morale, l'unico in grado di fornire risposte chiare alle esigenze esistenziali.
Lo sradicamento si caratterizza dunque dalla scomparsa di quelle àncore capaci di dar sostegno all'individuo, rispondendo alle sue domande più pregne(“chi sono?” tanto per citare un esempio).
Di fronte a questo fenomeno di atomizzazione e di anomizzazione dei vari membri della società si verificano dunque i tristemente noti casi di manifestazione di aggressività, verso di sè e verso gli altri (alcolismo, violenze fisiche- in taluni casi sfocianti in vere e proprie rivolte, come quella delle banlieues nel 2005- eccetera…).


Va da sé dunque che l'unica risposta positiva a questo drammatico scenario consista nella riappropriazione consapevole ed equilibrata di concetti quali Identità e Comunità, gli unici in grado di arginare lo sradicamento imperante.
In questo articolo parleremo del primo.


Identità: coscienza di gruppo
La parola identità deriva dal latino; “identitas” la chiamavano gli antichi: Id-entitas, che sarebbe un po' come dire “quella stessa entità”.(1*)
L'identità si configura quindi come “ sistema di rappresentazione in base al quale l'individuo sente di esistere come persona, si sente accettato, e riconosciuto come tale dagli altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di appartenenza”.(2*)
Questo concetto è quindi in grado di dare risposta al quesito principale dell'essere umano, inteso sia singolarmente sia collettivamente, cioè quel nodale “chi sono?” che si profilò già da secoli nelle menti dei nostri avi, e della cui importanza ho accennato prima.
Ricollegandosi proprio alla presa di consapevolezza di ciò che si è, scaturisce dunque la seconda grande risorsa insita nell'idea di identità, ovvero la facilitata maniera di interagire con l'Altro. Al riguardo degne di rilevanza sono le parole dell'autorevole antropologo veneto Ulderico Bernardi, il quale sostiene: “solo chi è certo della propria identità è disponibile al confronto e allo scambio, non teme la deculturazione, non mostra intolleranza e non manifesta aggressività nei confronti delle altre culture”.(3*)
Sapere chi si è aiuta quindi a relazionarsi con i diversi, nel rispetto dei ruoli di ciascuno, tralasciando derive integraliste tendenti all'esclusivismo ed alla chiusura.


A questo punto è necessario però chiarire come l'Identità si delinii in tratti limpidi e netti.
Il primo passo da considerare è la scelta; scegliere è diverso da aderire, e non a caso nel processo di identificazione un ruolo cruciale è assunto dal libero arbitrio: senza di esso, l'Identità si riduce a contenitori vuoti e sterili( per lo stesso procedimento a causa del quale molti concittadini professantisi “cattolici” non vanno mai a messa o molti “italiani” non conoscono le parole dell'inno nazionale).
Liberarsi da schemi prefissati e da etichette impostici a mo' di stampini risulta quindi il primo passo nella costruzione di un' Identità autentica, libera da condizionamenti e realmente sentita dai soggetti.
I passaggi successivi che portano alla formazione dell'Identità non sono meno difficoltosi, anzi, implicano un impegno ed una partecipazione assai cospicui e sono riconducibili a due nuclei fondamentali:
-memoria storica;
-meditazione storica;
La prima è il filtro della storia con gli occhi della tradizione(attenzione: non del tradizionalismo!). Per usare una metafora, è una sorta di gomitolo di lana i cui fili rappresentano le storie individuali dei membri della comunità, di generazione in generazione, fino a formare un amalgama omogeneo che costituisce la storia del gruppo.
Per la sua stessa natura(storia raccontata dai suoi diretti protagonisti), la memoria storica tende però a deviare trasformandosi in un elemento negativo; tende cioè ad assurgere ai compiti di celebrazione del proprio epos(mito) d'appartenenza, non badando all'obiettività ma solamente a riflessioni strumentali.
L'elemento in grado di superare la natura mitopoietica della Memoria Storica è la Meditazione Storica, riflessione transpersonale in grado di vagliare attentamente l'obiettività e la giustezza dei racconti tramandati.
La Meditazione Storica passa quindi attraverso la valutazione “sine ira et studio” della Memoria di appartenenza, tramite modalità scientifiche e non (benché in ogni caso ponderate), in modo tale da rifiutare le logiche di mera trasmissione del mito funzionale alla domanda identitaria.
In altri termini la Meditazione Storica si configura come quel processo in grado di indurre ad una riflessione sui temi passati in chiave dinamica, in modo da produrre una commistione tra gli elementi di permanenza e quelli di cambiamento, tesa a superare la fossilizzazione su elementi obsoleti.


Identità come riappropriazione in chiave evolutiva del passato e del presente dunque; l’alternativa è essere una sorta di “pesci fuor d’acqua”…in versione bipede.


Fonti:
(1*)vedasi le voci “identità” ed “entità” in “Dizionario Etimologico -avviamento alla etimologia italiana” di Giacomo Devoto, Le Monnier, 1968;
(2*) dalla voce “identità” in “Nuovo Dizionario di Sociologia” a cura di Franco Demarchi, Aldo Ellena e Bernardo Cattarinussi, Edizioni Paoline, 1987;
(3*) Ulderico Bernardi, L'insalatiera etnica, Neri Pozza, Vicenza 1992, p. 29. Citato in “Etnie:identità e sradicamento” articolo di Giovanni Monastra apparso su «Percorsi», n. 10, 1998, e reperibile sul web al seguente indirizzo: http://www.estovest.net/identita/etnie.html#t45 ;




17/11/09

La vergogna dell'Italia

di Andrea Tamaro


“Il razzismo e l’odio verso gli omosessuali sono la stessa cosa, intolleranza verso il diverso” - Andrea Camilleri

Volevo iniziare quest’articolo spiegando nel dettaglio cosa fosse successo il mese scorso, il 13 ottobre, in Parlamento. Parlare della proposta di legge “Concia” contro l’omofobia. Di come essa sia stata bocciata perché INCOSTITUZIONALE. La “pregiudiziale di incostituzionalità” è stata sollevata dall’Udc.
La legge avrebbe dovuto, modificando l’art. 61 del codice penale, introdurre l'aggravante della discriminazione sessuale per le aggressioni personali.
Invece continuo così.

Perché serviva questa legge?
Soltanto nel 2008, ci sono stati 9 omicidi, 45 aggressioni, 7 estorsioni, 5 episodi di bullismo e 9 atti vandalici ai danni di persone e associazioni gay e lesbiche e trans.
Nel 2009 la situazione è andata peggiorando a tal punto che un’esponente del Pd ha sentito il dovere di cercare di cambiare la situazione.
Avrei preferito che il Pdl avesse fatto una proposta del genere: avrebbe dimostrato di tenere ai propri cittadini, e magari elettori. Non tutti gli omosessuali sono di sinistra, anche se si piace crederlo.
La questione fondamentale è comunque che tutti coloro che vengono discriminati –disabili, trans- e, nel merito, omosessuali sentono il bisogno di essere tutelati.

Articolo 2 della Costituzione Italiana: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Se una coppia di ragazzi o di ragazze omosessuali cammina per strada e viene aggredita, picchiata, i responsabili devono essere puniti più severamente rispetto alla normale aggressione? La risposta è si. Prima di tutto poiché l’omofobia è come il razzismo (intolleranza che conduce a cose molto peggiori). Se non la si ostacola, essa diventerà normalità. Non è ovviamente il metodo migliore, ma è un piccolo passo avanti.
[il metodo migliore passa per la pedagogia, l'intervento nelle scuole, ...argomenti per un futuro articolo]

E c’è l’articolo 2 della Carta. Cosa vuol dire “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”? Da un punto di vista giuridico bisogna osservare, in primo luogo, l’uso del verbo riconoscere, interpretato come indizio del fatto che i diritti inviolabili dell’uomo sono preesistenti alla Carta costituzionale, ed hanno un valore “pregiuridico”, quindi universale: l’ordinamento non li crea ex novo (cioè dal nulla) ma si limita ad ammettere la loro esistenza. Proprio questo valore “pregiuridico” consente di trasformare l’art. 2 in una sorta di clausola aperta, affermando che l’art. 2 lascia all’interprete e al giurista la possibilità di verificare se, nell’evoluzione sociale, emergano diritti dalla necessità di tutelare e garantire le persone.
Per spiegare in modo ancor più semplice questo concetto, possiamo dire che l’art. 2 si configura come un “catalogo aperto dei diritti”. Essi sono “nuovi diritti” e tra essi c’è anche il diritto all’identità sessuale (oltre ad altri, altrettanto importanti, come il “diritto alla vita” e la “libertà di coscienza”).
Di conseguenza, nonostante nella Costituzione non vengano citati questi diritti (come avrebbero potuto i Padri -e Madri- costituenti sapere come sarebbe potuta cambiare la società?), essi esistono e devono essere riconosciuti in maniera più sostanziale. E per questo esiste il legislatore. Per questo il 13 ottobre scorso, la legge doveva essere approvata, per dire: “Noi sosteniamo che l’omofobia sia uno dei mali del nostro Paese, e gli omosessuali hanno gli stessi diritti degli altri”, non doveva essere etichettata come incostituzionale. Udc. Unione di Centro. Vaticano. Papa.
Lascio a voi le dovute conclusioni.

Da tutto ciò emerge un quadro desolante. L’Italia vive in un altro mondo.
Il 29 ottobre Barack Obama ha firmato il Matthew Shepard Act, la legge che equipara i reati di omofobia a quelli di razzismo. Il nuovo testo amplia la definizione degli “hate crime”, i reati dettati dall’odio, finora previsti solo per i casi di discriminazione etnica, razziale e religiosa, facendo rientrare anche quelli compiuti per il diverso orientamento sessuale e pure per una disabilità delle vittime.
E invece l’Italia è stata richiamata dall’ONU, dall’alto commissario ai Diritti umani: “Affossare la legge contro l’omofobia è stato un passo indietro per l’Italia; per gli omosessuali è necessaria una piena protezione”.

Voglio chiudere l’articolo, cercando di rendervi partecipi dei miei sentimenti e sensazioni su tutto ciò.
Ogni volta che sento o leggo una notizia su un’aggressione o un pestaggio, rimango in silenzio e prego che sia l’ultima volta che debba sentire questi episodi di violenza. Ogni volta succede, di nuovo, qualcosa. Ragazzi deturpati in volto, mandati all’ospedale. Dolore. Morte.
Perché c’è indifferenza per questi crimini? E si estinguerà mai l’odio verso il “diverso”? Ma odio per cosa poi? Non scegliamo noi di essere omosessuali, è un dato di fatto, come il sole che splende nel cielo. Cosa c’è di più naturale dell’amore tra due persone, chiunque esse siano? È solo per qualche ipocrita considerazione di carattere sessuale o moralistica?
Genitori, genitori dico, che ripudiano i figli, genitori che dicono al figlio/a “Vorrei che tu morissi” perché omosessuali, pena di morte in certi stati (con la minuscola apposta), discriminazione sul lavoro, rischio della propria incolumità per le strade. Perché non buttarci in un campo di concentramento come fecero i nazisti? 100.000 omosessuali furono deportati nei campi. Meno di 70 anni fa. E l’odio permane.
Il passato è una lezione inascoltata. Come è la storia” - Enzo Biagi



15/11/09

Presentazione

di Tommaso Ramella


In occasione dell'apertura del blog di Pot-pourri, mi sembra doveroso spendere poche parole su come sia nata questa iniziativa e quali scopi si prefigga. 
Già da tempo sentivo la necessità di creare una rivista di ambito culturale, uno spazio nel quale potessero confluire l'impegno e la fantasia di studenti che trovano quotidianamente spunti di riflessione interessanti sulla letteratura, sull'arte, sulla scienza e in generale su ogni ambito del sapere umano. Troppo spesso questi pensieri crescono dentro di noi senza trovare un'espressione adeguata, ed è proprio la difficoltà che incontriamo nell'esprimerli ad impedirne la completa maturazione. Riflettendo sulla mia esperienza, mi sono reso conto di non essere abituato a disporre i pensieri in maniera organica e sistematica, e dal momento che ho sempre ritenuto valida la massima latina rem tene, verba sequentur, (tieni in pugno l'argomento, le parole seguiranno), sono giunto alla conclusione che se la forma dei miei pensieri è difettosa, difettosi devono essere anche i miei pensieri. Ho pensato così di costringere il flusso impetuoso delle idee entro gli argini della parola scritta, opponendo la fermezza di quest'ultima alla volubilità dei pensieri: così è nato Pot-pourri
Gli articoli pubblicati nel blog sono scritti da studenti che frequentano la scuola superiore o l'università, non hanno la pretesa di avere valore scientifico ma fungono piuttosto da palestra per giovani studiosi che si stanno impadronendo degli strumenti critici necessari ad entrare nel mondo del lavoro; il lettore è invitato a partecipare a questa ricerca esercitando il proprio giudizio critico nel leggere gli articoli, comunicando con gli autori e partecipando attivamente al progetto. Lo scopo di Pot-pourri è tanto l'autoeducazione dell'autore quanto l'educazione del lettore: la conoscenza è sempre frutto di un processo dialettico, non ci può essere apprendimento senza comune partecipazione. 
Concludo questa presentazione con un cordiale saluto ai lettori, nella speranza che gli articoli possano suscitare il loro interesse.

Colpevole? No, prescritto!

di Stefano Tieri


Processo Mills: perché Mr. B non verrà condannato

Premessa: ho iniziato a raccogliere il materiale per l’articolo all’incirca un mese fa, quando ancora parlare dei diversi “piani” con i quali Silvio Berlusconi avrebbe potuto evitare i suoi processi era un tabù. Ad oggi l’argomento è invece dei più scottanti, tutti i quotidiani lo trattano e persino i tg non possono evitare di aprire gli occhi. Certo, c’è modo e modo di parlarne, e mostrando il tutto come semplice prassi governativa (come se Parlamento e Senato dovessero farsi dettare l’agenda dai processi al premier-imputato) si finisce col guardare le vicende come l’ennesimo capitolo di una guerra – quella fra politica e magistratura – iniziata nel lontano 1992, con Mani pulite.
Ma veniamo ai fatti…

In seguito alla conferma della condanna nella sentenza d’appello, in attesa del definitivo verdetto della Cassazione (previsto entro l’aprile 2010), l’Italia intera – o almeno, quella parte che ancora ha il coraggio di leggersi un giornale la mattina – si interroga sul futuro giudiziario dell’avvocato David Mills e del suo illustre coimputato, il Presidente del Consiglio.
Verrà condannato? Verrà assolto? Domanda semplice: il reato sarà prescritto. Termine che per il premier ed il suo stalinista apparato d’informazione equivale ad «assolto» (in questo il telegiornale Studio Aperto ha anticipato persino lo stesso Berlusconi, arrivando a dire per bocca di Luigi Galluzzo, già il 19 maggio 2009: «nel giorno in cui escono le motivazioni del processo Mills in cui Berlusconi fu assolto…»).

Ed ora ecco le (numerose) cause che porteranno ad una inevitabile prescrizione.
Prima di tutto, il lodo Alfano. Sebbene la Corte l’abbia ritenuto incostituzionale, questo non esclude la sua decisiva influenza sul processo a Mr. B: i tre giudici che hanno condannato David Mills quale teste corrotto nell’interesse di Berlusconi – ovvero Gandus, Dorigo e Caccialanza – avendo appunto espresso un parere analogo riguardo ai medesimi fatti imputati al premier nello schema corrotto-corruttore, sono divenuti per legge «incompatibili» a giudicare lo stesso Presidente del Consiglio. Il processo, con i tre nuovi giudici designati, non ricomincerà dal punto in cui lo si è lasciato: la difesa, infatti, ha diritto a richiedere che tutte le testimonianze, le rogatorie all’estero e le prove assunte in quasi due anni di processo (dai vecchi giudici), siano raccolte nuovamente (dai nuovi giudici). A differenza del processo, però, i tempi di prescrizione (nonostante fossero stati «congelati» dal lodo) non si sono azzerati. Se 2+2 dà 4, è facile immaginare come la prescrizione, il cui tempo entro il quale scatterà è stato dimezzato per mezzo della legge ex Cirielli (legge n. 251 del 5 dicembre 2005, approvata durante il terzo governo Berlusconi), diventi un traguardo quanto mai facile.

Ma non è finita qui. Perché, allo stato attuale delle cose, nel caso in cui si arrivasse ad una condanna definitiva per Mills, il dibattimento nel processo a Berlusconi non sarebbe granché lungo: il giudice dovrebbe soltanto dimostrare se il premier ha dato o meno l’ordine di pagare il coimputato, e tutto finirebbe lì (in quanto il reato, ovvero la mazzetta versata dalla Fininvest a Mills, sarebbe già dimostrato).
C’è il rischio, insomma, che pur con la legge Cirielli e con il meccanismo già spiegato scattato in seguito al lodo, si raggiunga un verdetto per Mr. B.
Ed ecco che entrano in gioco gli avvocati del premier, nonché deputati nelle file del pdl, ideando una norma che negherebbe alle sentenze il valore di prova, contenuta all’interno della riforma del codice penale.

Tutto ciò probabilmente basterebbe, ma è sempre meglio andare sul sicuro: negli ultimi giorni i legali del premier si sono sbizzarriti per trovare diverse nuove soluzioni, nel caso in cui alcune di esse vengano bocciate dalla maggioranza (diversi uomini della fu An hanno spesso mostrato di non apprezzare alcune norme ad personam). Ghedini ha così pensato ad un ulteriore taglio ai tempi di prescrizione (per la precisione di un quarto, relativi ai reati con una pena prevista inferiore a 10 anni e commessi prima del 2 maggio 2006: occorre forse precisare che nella categoria rientra anche il processo per corruzione di Berlusconi?) incontrando però l’ostilità dei finiani, preoccupati forse dagli effetti nefasti che una norma del genere porterebbe al sistema giudiziario.

Alfano, dopo essersi consultato con Longo e Ghedini, trova un’altra possibile soluzione, rivelata da Dino Martano sul Corriere della Sera del 29 ottobre: fissare un tetto di tre anni per il primo grado di giudizio; di due per l’appello; di uno per la Cassazione. Conclude il giornalista: «con la prima o con la seconda soluzione, lo stralcio Berlusconi del processo Mills sarebbe già prescritto».
La strada da seguire per salvare il Presidente del Consiglio si è infine trovata, mettendo d’accordo Berlusconi e Fini: porre un limite di due anni per ogni grado di giudizio (il che rende ugualmente valida la valutazione finale di Martano) nel caso in cui l’imputato sia incensurato. Maliziosamente si potrebbe notare come il Presidente del Consiglio, grazie a sei prescrizioni (senza contare i diversi processi da cui è uscito illeso grazie ad altrettante norme ad personam), sia un incesurato, e goda perciò di questo ulteriore taglio ai termini di prescrizione: così facendo salterebbe, oltre al procedimento Mills, quello per i fondi neri Mediaset.

«Sarebbe assurdo e illogico – rivela Mills parlando del processo che lo vede unito a Berlusconi – se uno fosse condannato e l’altro assolto: o tutti e due colpevoli o innocenti, vista la natura dell’accusa di corruzione». Condanna o assoluzione? A quanto pare, mentre all’avvocato inglese toccherà (se la sentenza verrà confermata in Cassazione) la prima sorte, il secondo – più fortunato – verrà assolto.
Nel dizionario berlusconiano, ovviamente.

Il sommo Poeta, adattando i suoi versi, avrebbe potuto esprimersi così:

ed elli a me: "Questo misero modo
tengnon l'anime triste di coloro
che visser pien d'infamia e sanza lodo".

Sussurri da una lingua morta

di Tommaso Ramella


Prima di cominciare a leggere l'ode 3, 13 di Orazio devo fare una una breve premessa. La mia traduzione, assolutamente pedestre, non riproduce il ritmo né tanto meno la musicalità del testo oraziano, entrambi aspetti fondamentali della poesia in genere e specialmente di quella lirica.
Le odi di Orazio, a differenza di quelle greche, non erano accompagnate dalla lira, perciò il compito di produrre la melodia era affidato interamente alla parola, all'alternanza di sillabe lunghe e brevi e agli accenti melodici. Noi che ci apprestiamo a leggere una poesia di Orazio non siamo più in grado di percepire la quantità delle sillabe né gli innalzamenti e gli abbassamenti di tono: è un po' come se leggessimo il testo di una canzone di De André senza sentirne la voce e l'accompagnamento, insomma, la musica. Per distinguere la poesia classica dalla prosa si è così fatto ricorso al seguente stratagemma: in corrispondenza della prima sillaba lunga del piede (la misura che scandisce il verso) si è fatto cadere un accento intensivo, ovvero un aumento dell'intensità della voce; questo accento ha sostituito l'ictus latino, che serviva a distinguere il battere dal levare nel corso della recitazione. Ma se la lettura metrica con cui generazioni di studenti sono state torturate non è altro che una convenzione, se le nostre parole non suoneranno mai come quelle di Orazio, perchè obbedire all'erbitrio di qualche professore? Per provare a dare una risposta a questa domanda tornerò all'esempio di De André. Immaginiamo che, per disgrazia, vadano perse tutte le partiture delle sue canzoni, che non ci sia più modo di ascoltarne la voce né la musica e che tutto ciò che ci rimanga siano i suoi testi: riprodurremmo meglio un suo concerto leggendo il testo delle sue canzoni o provando a scrivere nuove partiture per cantarle? Io ritengo che non ricostruire un contesto musicale per paura di tradire De André ed Orazio costituisca un tradimento ben più grave nei loro confronti che macchiarsi di qualche arbitrio nel tentativo di mettere nuovamente a contatto il pubblico con la loro opera. Inserirò dunque nel testo latino degli accenti intensivi: che vogliate leggerli o meno, sappiate che la voce di Orazio non la sentirete.


Hor. Carmina 3, 13 (metro: strofe asclepiadea terza)


O΄ fons Ba΄ndusia΄e sple΄ndidio΄r vitro,
du΄lci di΄gne mero΄ no΄n sine flo΄ribus,
cra΄s dona΄beris hae΄do
cu΄i frons tu΄rgida co΄rnibus


pri΄mis e΄t venerem e΄t pro΄elia de΄stinat.
Fru΄stra: na΄m gelido΄s i΄nficie΄t tibi
ru΄bro sa΄nguine ri΄vos
la΄scivi΄ subole΄s gregis.


Te΄ flagra΄ntis atro΄x ho΄ra Cani΄culae
ne΄scit ta΄ngere, tu΄ fri΄gus ama΄bile
fe΄ssis vo΄mere ta΄uris
pra΄ebes e΄t pecori΄ vago.


Fi΄es no΄biliu΄m tu΄ quoque fo΄ntium
me΄ dice΄nte cavi΄s i΄mpositam i΄licem
sa΄xis, u΄nde loqua΄ces
ly΄mphae de΄siliu΄nt tuae.


O fonte Bandusia, più lucente del vetro, degna del dolce vino puro non senza fiori, domani ti verrà donato un capretto al quale la fronte turgida per le prime corna promette amore e scontri. Invano: la prole del gregge  in calore ti macchierà di rosso sangue i rivi gelidi. L'ora feroce dell'ardente Canicola non può toccarti, tu offri amabile frescura ai buoi stanchi del vomere e al bestiame errabondo. Anche tu diverrai una delle fonti celebri, dal momento che io canto il leccio che sovrasta la cava roccia dalla quale balzano giù loquaci le tue acque.


L'ode è dedicata alla fonte della ninfa Bandusia, un piccolo corso d'acqua probabilmente situato nei pressi della villa sabina di Orazio. Nell'antichità le fonti erano sacre ai poeti, poiché si diceva che fornissero loro l'ispirazione; i poeti, in cambio, rendevano celebri le fonti con il loro canto. Questa tradizione, apparentemente bizzarra, ha in realtà una spiegazione di natura tecnica: parlare dell'acqua in versi era considerata la prova più difficile per il poeta, che si vedeva costretto a rappresentare un elemento tanto mutevole e sfuggente attraverso parole fisse ed immutabili. Perciò, ogniqualvolta compare l'acqua nella poesia latina, possiamo star certi che l'autore si sta preparando ad esibire tutto il suo talento.
Orazio definisce la sua fonte splendidior vitro, più lucente del vetro: è un superlativo assoluto cammuffato da comparativo di maggioranza, visto che il secondo termine di paragone è splendidus al massimo grado. L'acqua della fonte è limpida e brilla ai raggi del sole, persino più del vetro; ma non basta, le sue acque sono degne di offerte votive quali il dolce vino puro e le corone di fiori, cioè sono sacre. Orazio comincia a descrivere un rito vero e proprio: veniamo a sapere che cras, il giorno seguente, la fonte riceverà in dono un capretto. Se Orazio ci informa che il capretto verrà donato all'indomani del giorno in cui si immagina pronunciata l'ode, possiamo supporre che si tratti di una ricorrenza, con ogni probabilità i fontanalia, una festa celebrata il 13 ottobre nel corso della quale venivano offerti alla fonte vino, corone di fiori ed un capretto.
Noterete che il verbo dono viene usato in maniera piuttosto insolita al v. 3; in italiano ci aspetteremmo una costruzione del tipo qualcuno dona qualcosa a qualcuno, dove il verbo donare viene usato in senso attivo, Orazio invece sfrutta l'opportunità concessagli dal latino e volge il verbo dono al passivo, in un'espressione simile all'italiano qualcuno riceve in dono qualcosa. Perchè Orazio ha fatto questa scelta? In fin dei conti, il latino conosceva anche la costruzione attiva del verbo dono, anzi, quest'ultima era di gran lunga la più frequente. Per scoprirlo dobbiamo porci la seguente domanda: qual'è la differenza tra queste due frasi, qualcuno donerà un capretto alla fonte e la fonte riceverà in dono un capretto? Ciò che le distingue è il numero degli elementi compositivi: la seconda espressione, quella scelta da Orazio, permette di escludere dalla scena colui che porterà in dono alla fonte il capretto, ovvero l'uomo. L'armonia del paesaggio naturale che si sta delineando verrebbe turbata dalla presenza umana, perciò Orazio si limita a citare la fonte ed il capretto, animale che ci riporta immediatamente al contesto sacrale introdotto dal v. 2. Il capretto che Orazio descrive non è un mero strumento votivo, è un essere vivente inserito nel ciclo naturale: i piccoli bozzi che ha sulla fronte, appena un accenno di corna, suggeriscono la sua forma matura, la stagione degli amori e gli scontri con i rivali. Il capretto è destinatus a tutto ciò, è già proiettato verso il futuro, quando il ciclo naturale viene bruscamente spezzato dall'avverbio frustra, che pare tagliare di netto il filo della vita dell'animale.
Prima di analizzare i vv. 6-7 apro una breve parentesi: il latino, come avrete notato fin dai primi versi, può disporre le parole in modo estremamente fluido, poiché, a differenza dell'italiano, sono le desinenze a stabilire le connessioni grammaticali tra le parole. Quando tra due parole legate grammaticalmente ne vengono inserite delle altre si forma un nesso: il lettore si aspetta che al primo termine segua quello ad esso collegato, e quando ciò non accade in lui si sviluppa una tensione che trova il proprio scioglimento solo con la comparsa della parola attesa. Il vantaggio di provocare questa tensione nel lettore è che in tal modo si aumenta notevolmente la sua partecipazione al testo: è lo stesso meccanismo che ci porta a seguire con maggiore apprensione un film carico di suspence. Se ora torniamo ai vv. 6-7, vediamo che essi sono composti da un nesso che ha come estremi i termini gelidos e rivos, in mezzo ai quali sono comprese ben quattro parole, inficiet, tibi, rubro e sanguine. Seguiamo le parole e facciamo attenzione a quello che ci dicono. gelidos, il freddo pungente di un ruscello. inficiet, le splendidissimae, gelidae acque si tingono. tibi, tutto ciò che accade avviene presso la fonte e per la fonte. rubro, viene definito meglio il tingersi delle acque, che assumono un coloro rossastro. sanguine, ciò che tinge di rosso le acque della fonte è il sangue del capretto appena sacrificato, ancora rosso e caldo. rivos, il nesso si chiude. Le limpide, gelide acque della fonte sono state tinte di rosso dal sangue ancora caldo del capretto. L'immagine, ormai vivida nella nostra mente, è solo prefigurata da Orazio, il sacrificio non si è ancora compiuto, ma ormai il destino del capretto non può essere che spargere il proprio sangue nei gelidi rivi.
L'allitterazione della r al v. 9 produce un effetto molto simile a quello della poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale e contribuisce alla descrizione della feroce calura dei meriggi estivi, quando i buoi ed il bestiame cercano refrigerio tra le acque della fonte ancora gelide, apparentemente immuni ai raggi del sole. Orazio non ha bisogno di descrivere il paesaggio, poichè la presenza di animali da allevamento suggerisce immediatamente al suo pubblico il contesto rurale divenuto topos nella poesia bucolica, una distesta di pascoli, lievi pendii, boschi e ruscelli.
L'ode volge ormai al termine ed Orazio annuncia che la fons Bandusiae raggiungerà presto la fama delle fonti più celebri, quelle già cantate dai grandi lirici greci: perché ciò avvenga egli ha ancora a disposizione tre versi, nei quali dovrà concentrare tutta la sua arte. Orazio canta un leccio che sovrasta una roccia cava, dalla cui sommità balzano giù le acque della fonte. E' una rappresentazione completa del locus amoenus, un topos letterario con il quale i poeti greci e latini erano soliti confrontarsi. Ma Orazio non si accontenta di un quadro muto, vuole dare vita alla propria opera, e lo fa riproducendo il suono dell'acqua che cade dalla roccia e zampilla sulle pietre sottostanti. La metafora lymphae loquaces è per noi lettori moderni il suggerimento più evidente di questo suono: le acque vivaci del ruscello producono un verso continuo mentre scorrono e pare che stiano chiacchierando. Eppure, per imitare il suono dell'acqua, Orazio disponeva di uno strumento di gran lunga più efficace dell'astratta metafora: disponeva del suono delle parole. Purtroppo non potremo mai sapere quale effetto producesse il verso di Orazio, visto che il latino è una lingua ormai muta; abbiamo tuttavia degli indizi dell'importanza che doveva avere l'aspetto fonico in quest'ultimo verso, ad esempio l'allitterazione della l, la rima interna lymphae - tuae e la presenza di una vocale estranea al latino, la y di lymphae. La parola lymphae, impreziosita dal vocalismo esotico, è un gioiello incastonato da Orazio nella chiusa dell'ode, una dimostrazione del suo genio poetico; un poeta minore avrebbe completato il quadro del locus amoenus con il termine aquae, le acque che balzano giù dalla roccia, ma Orazio vuole portare l'ascoltatore attento su un piano più alto, lontano dal paesaggio della campagna sabina: il termine lymphae descrive in modo concreto il processo d'ispirazione poetica, indica i flussi di idee che vengono fatti scorrere nella mente del poeta dalla divinità. A più di duemila anni dal giorno in cui Orazio pronunciò quest'ode, il suono della sua voce si è spento assieme al mormorio delle acque, ma, se si presta attenzione, si possono ancora udire i sussurri della sua Musa, la ninfa Bandusia.

La Bellezza è nostra

di Piero Ramella


Riflessione ad uso quotidiano sulla fruizione di arte contemporanea (e non).
 

Gran parte del genere umano prova esperienza del mondo circostante in primo luogo attraverso la vista e dagli occhi riceve ininterrottamente stimoli di ogni natura e complessità. Eppure pochi imparano a vedere: gli altri, assuefatti dalla sovrabbondanza di immagini offerte dalla vita quotidiana, ignorano il potere del loro organo sensoriale principe e ne divengono vittime passive.
A che scopo riferire ciò? Perchè, per fruire correttamente di un qualsivoglia prodotto delle arti figurative, la condizione prima sine qua non è vedere, nel senso di essere coscienti di ciò che si osserva e degli effetti di questo sulla percezione.
Specialmente di fronte ai lavori degli artisti dell'ultimo secolo, spesso sorge l'interrogativo: Cosa dovrebbe voler dire?.
Al di là della risposta al quesito, in genere la domanda stessa risulta errata in partenza, o quantomeno prematura. Infatti, il primo significato di un'opera d'arte risiede nelle qualità intrinseche dell'immagine, al di là della volontà dell'autore e delle interpretazioni della critica.
W. Kandinsky descrisse le sensazioni provocate dalla pittura come suoni interiori, sottolineando così una caratteristica fondamentale che accomuna questa alla musica (così come alla poesia ed a qualsiasi altra forma d'arte in senso lato), ossia il trasmettere un significato inesplicapile al di fuori di se stessa. E' forse possibile descrivere in maniera soddisfacente un concerto attraverso la comunicazione verbale? No. Allo stesso modo del linguaggio musicale, quello visivo non può essere sostiuito dalla parola e perciò l'ossevatore dovrebbe rimandare l'interpretazione logico-razionale ed immergersi nell'esperienza estetica.
Le opere d'arte famose e spesso raffigurate presentano una notevole facilitazione per chi si accinge ad esaminarle: si sa che sono belle e meritevoli di essere studiate con attenzione: anche il meno avvezzo tra i fruitori d'arte occasionali di fronte alla Gioconda si soffermerà qualche minuto ad ammirare, sicuro di trovarsi in presenza di un capolavoro. Forse è proprio questo atteggiamento nell'avvicinarsi all'immagine a causare l'assuefazione del pubblico moderno, che abbandona ogni ricerca per affidarsi all'opinione altrui. Nella disamina del bello, quanto si può conoscere intorno all'opera è accessorio all'impressione soggettiva, il suono interiore. Con ciò non intendo affermare che la conoscenza della storia e della critica dell'arte siano futili, anzi, questa permette di creare i presupposti necessari allo sviluppo di una sensibilità estetica raffinata e cosciente; voglio piuttosto sottolineare come risulti maggiormente significativo cercare da sé la bellezza nelle forme e nei colori, piuttosto che trovarla acriticamente laddove è già stata cercata da altri.
Sempre W. Kandinsky, ne Lo Spirituale nell'Arte, elencando i motori spirituali alla base della creazione dell'opera, scrive:

1.ogni artista, in quanto creatore, deve esprimere se stesso (personalità);
2.ogni artista, in quanto figlio figlio della sua epoca, deve esprimere la sua epoca (stile come valore interiore, composto dal linguaggio dell'epoca e, finchè esisterà la nazione, dal linguaggio della nazione);
3.ogni artista, in quanto è al servizio dell'arte, deve esprimere l'arte (artisticità pura ed eterna che è insita in tutti gli uomini, in tutti i popoli, in tutti i tempi; che si osserva nell'opera di ogni artista, di ogni nazione, di ogni epoca e che, in quanto fattore fondamentale dell'arte, non conosce né spazio né tempo).

Allo stesso modo, ignorando in quest'occasione le riflessioni che l'autore fa derivare da tali postulati, possiamo abbastanza facilmente riconoscere in ogni prodotto artistico un valore legato all'opinione dell'individuo intorno all'opera, un valore rapportato all'epoca durante la quale essa viene valutata, ed al luogo in cui ciò avviene, ed infine un valore assoluto atemporale dell'opera, che si potrebbe riferire ad una sorta di Assoluto, oggetto ultimo dell'arte (verranno tralasciate in questo luogo le considerazione intorno al terzo punto).
Abbandonando i toni misticheggianti che, sebbene suggestivi, peccano inevitabilmente di nebulosità, si potrebbe prendere l'esempio di tutti quegli artisti le cui opere nel corso degli anni furono prima incensate e poi diprezzate, per essere infine rivalutate ancora una volta, o viceversa; si potrebbe poi pensare ad un giudizio originario attribuito dagli artefici stessi ed uno attribuito dagli altri osservatori, entrambi soggetti al mutare delle opinoni nel tempo.
Potremmo affermare che, essendo il giudizio odierno più recente degli altri, questo abbia maggior valore, ma come essere sicuri che in un futuro più o meno prossimo la critica non assuma una posizione opposta a quella d'oggi? Oppure, come essere sicuri che gli osservatori antichi non fossero più capaci di noi nel giudicare? Inoltre, come si può conoscere cosa intendesse originariamente esprimere l'artista? Chi ci conferma che ciò per cui noi ora lo apprezziamo, ora no, fosse realmente nelle intenzioni dell'autore? Personalmente ritengo che l'indagine razionale fornisca le chiavi per rispondere al meglio a tali interrogativi, ma dubito che un critico cosciente possa nutrire l'arrogante ambizione di conoscere la verità assoluta in proposito: alla fine non resta che guardare in faccia la nostra opinione, fondata certamente sulle esperienze personali e sulla conoscenze teoriche, ma molto spesso indipendente da queste.
E se un'opera considerata universalmente di bassa qualità comunicasse ad un osservatore emozioni profonde quanto quelle suscitate da un acclamato capolovoro, bisognerebbe giudicare miope il giudizio comune o quello del singolo? A mio parere quello comune.
Grandi artisti nei secoli hanno insegnato agli uomini come l'arte possa nascondersi in ogni manifestazione della realtà, pertanto risulta lecito assumere che, qualora uno veda della bellezza in un'opera in genere ritenuta sterile, questo sia capace di osservare meglio degli altri. Al contrario, se al singolo apparisse privo di significato un lavoro universalmente acclamato, ritengo sia opportuno attribuire a lui la mancanza: l'unico metro di valutazione valido rimane la misura in cui la composizione favorisce il fiorire di emozioni nell'osservatore; W. Kandinsky definisce così il quid, elemento costitutivo e fine ultimo dell'arte stessa: l'efficace contatto con l'anima, o principio di necessità interiore.
In considerazione di ciò, agli occhi dell'osservatore l'importanza dell'oggetto rappresentato in sé dovrebbe sfumare di fronte al processo attraverso cui prende forma il giudizio intorno all'opera: la domanda cardine è come?, non cosa?.
Certamente pensava a ciò John Cage, scrivendo a proposito dell'artista Robert Rauschenberg in Silenzio: Non esistono soggetti poveri (qualsiasi incentivo a dipingere è buono quanto qualsiasi altro). Dante è un incentivo, offrendo molteplicità, utile allo stesso modo di un pollastro o di una camicia vecchia. Ugualmente significativo risulta il fatto che un altro grande artista, Mark Rothko, spesso si dimostrò restio ad esplicitare il significato dei suoi quadri, tanto da abbandonare i titoli di questi ultimi in favore di una fredda e sequenziale numerazione, motivando: Vi è il pericolo che […] si costituisca uno strumento che dirà al pubblico come dovrebbero essere guardati i quadri e cosa cercarvi, il che comporterebbe la paralisi della ragione e dell'immaginazione (e per l'artista una sepoltura immatura).
In conclusione, desidero rivolgere un suggerimento a tutti i fruitori d'arti visive, ma specialmente agli scettici nei confronti dell'arte moderna e contemporanea: cercate la vostra bellezza nel'immagine, non quella dell'autore, non quella della critica. Concedete all'opera il tempo di interrogarvi ed abbandonate il pensiero al colore, alla forma, alla materia o a qualsiasi altro dettaglio vi possa affascinare. L'artista non fa altro che selezionare frammenti di realtà e posarli su di un piedistallo, perciò, se siete in grado di trovare bellezza in un tramonto, in un fiore od in un paio di jeans vecchi, con la dovuta attenzione sarete certamente in grado di trovarla pure nei quadri di Kandinsky, di Matisse o di Burri. Questo è il primo, ed il più importante passo.

Bruno De Finetti e la probabilità soggettiva

di Giovanni Tarabocchia


Nato ad Innsbruck nel 1906, morto a Roma nel 1985, Bruno De Finetti fu una figura di spicco nel panorama della ricerca matematica nella prima metà del secolo scorso.
Laureatosi in Matematica Applicata a Milano nel 1927, accettò un incarico all’Istituto Centrale di Statistica. Entrò poi a far parte dell’ufficio attuariale delle Assicurazioni Generali a Trieste, che beneficiarono enormemente delle applicazioni delle sue scoperte, e dal 1952 si dedicò esclusivamente alla ricerca ed all’insegnamento, alle università di Roma e Trieste.
Il suo contributo a svariati rami della matematica fu enorme, ma ciò che più di ogni altra sua opera lo ha reso famoso nel mondo è un approccio rivoluzionario alla teoria della probabilità, la concezione soggettiva di probabilità. Ma come può un concetto matematico essere soggettivo?
Per dare una risposta occorre accennare brevemente alla definizione di probabilità nella storia della matematica.
Secondo la prima definizione rigorosa, attribuita allo scienziato illuminista Laplace (1812), la probabilità del verificarsi di un evento è il rapporto tra il numero di casi favorevoli al suo verificarsi ed il numero di casi possibili, purchè questi ultimi siano equiprobabili. Ad esempio se si lancia un dado, la probabilità di ottenere un 6 è 1/6, in quanto una è la faccia favorevole e sei le facce possibili equiprobabili. Questa definizione tuttavia non è soddisfacente perchè richiede, nel definire la probabilità, che i casi possibili siano equiprobabili, e presuppone quindi un concetto a priori di probabilità che non viene matematicamente definito.
Un’ altra concezione è quella frequentista di Von Mises, che vuole la probabilità definita come limite cui tende la frequenza relativa all’evento al crescere del numero degli esperimenti, in pratica ci si propone di compiere e ripetere degli esperimenti e fare una media per capire quanto spesso l’evento si verifichi. Questa definizione funziona anche nel caso in cui le varie possibilità non siano equiprobabili, come ad esempio nel calcolare la probabilità che esca 6 lanciando un dado truccato: semplificando, lo si tira più volte possibile, poi si fa in rapporto tra i casi in cui si è ottenuto 6 ed i casi totali.
Il limite di questa definizione è che l’esperimento deve essere ripetibile più volte, idealmente infinite, nelle stesse condizioni, quindi quesiti di probabilità come il chiedersi se vi sia vita su Marte, benché leciti, sono irrisolvibili.
La probabilità soggettiva di De Finetti permette di considerare sia i problemi in cui i casi non siano equiprobabili, sia quelli in cui non è possibile fare o ripetere esperimenti, e si basa su una definizione di probabilità molto particolare: la probabilità del verificarsi di un evento è la misura del grado di fiducia che un individuo coerente attribuisce, secondo le sue informazioni e opinioni, al suo avverarsi, dove con coerente si intende che non abbia interesse a barare nella valutazione e che applichi correttamente le norme di calcolo. Ad esempio, nel lancio del dado, la probabilità che esca il 6 non è altro che il grado di certezza che l’osservatore ripone nel verificarsi dell’evento. Questo grado di certezza viene calcolato dall’osservatore secondo le regole classiche della probabilità, ma esse stesse non sono la probabilità, che è invece l’atto umano del valutare il corso futuro degli eventi, che si risolve in un giudizio di carattere quantitativo. Benché vi siano, ovviamente, regole di calcolo della stessa, la sua definizione è sostanzialmente psicologica.  Ogni valutazione di probabilità non ha né può avere che un valore essenzialmente ed esclusivamente psicologico scrive De Finetti. Da qui l’aggettivo soggettivo, che non deve essere inteso come arbitrario: di fatto, appena vi siano le premesse sufficienti, le valutazioni individuali di persone coerenti convergono. 
L’oggetto di studio è quindi proprio l’uomo e la sua valutazione soggettiva, ed è questo a rendere la concezione rivoluzionaria, perché fino a quel momento nella matematica si erano considerati solo concetti descrivibili oggettivamente sulla base di loro caratteristiche intrinseche, per esempio un triangolo. Ma questa soluzione si è rivelata difficile per la probabilità, come si è visto precedentemente.
Questo approccio accese aspre polemiche (si dice perfino che abbia scatenato lanci di sedie), ma è stato presto riconosciuto nel mondo accademico perché su di esso si può costruire un sistema rigoroso e formale a partire dalla sola definizione di probabilità che viene data.
Successivamente è stata formulata anche una teoria oggettiva della probabilità, ma si è dovuto rendere assiomi dei teoremi che nella probabilità soggettiva sono dimostrati a partire unicamente dalla definizione precedente.
L’approccio soggettivistico, dovuto al genio del probabilista italiano, resta quindi, ad oggi, il più sistematico.