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19/03/10

Ricordando don Peppino Diana


di Tommaso Ramella

Giuseppe Diana nasce nel 1958 a Casal di Principe, in provincia di Caserta. All'età di dieci anni entra in seminario, dove frequenta la scuola media e il liceo classico, quindi si trasferisce a Posillipo per proseguire gli studi di teologia e a Napoli per laurearsi in filosofia. Nel 1978 entra a far parte dell'AGESCI (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani), dove è caporeparto. Nel 1982 viene ordinato sacerdote e comincia a lavorare con gli scout d'Aversa. E' il 1989 quando Giuseppe Diana, ormai noto a tutti come don Peppino, decide di far ritorno a Casal di Principe come parroco della chiesa di San Nicola di Bari. Ha solo 31 anni don Peppino, ma ha già visto scorrere fiumi di sangue per le strade del suo paese natale: nel corso degli anni '80 nell'agro aversano è dilagata una guerra fra il cartello camorristico di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata, e quello di Antonio Bardellino, la Nuova Famiglia. E' una vera e propria "mattanza", solo tra il 1980 e il 1981 si contano 400 vittime. Dopo anni di guerra sanguinosa Antonio Bardellino prevale e fonda il clan dei casalesi. Nel 1988, un anno prima che Don Peppino torni a Casal di Principe, all'interno della Nuova Famiglia scoppia una faida che porta all'uccisione di Antonio Bardellino: a prenderne il posto alla guida del clan è Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ben presto, tuttavia, avviene una nuova scissione tra i casalesi: un gruppo di famiglie capeggiate dai De Falco si allea contro gli Schiavone, nel tentativo di prendere il controllo del clan. E' proprio mentre l'ultima guerra tra gli Schiavone e i De Falco insanguina il paese che Don Peppino arriva a Casal di Principe. La situazione è critica: ditte, appalti, polizia, comune, tutto è controllato dai casalesi. 
Don Peppino decide di reagire. Si rende conto che non è sufficiente dare conforto alle vittime, bisogna combattere la mafia, contrastarne le dinamiche di potere, i fondamenti economici, sociali e culturali. Il giorno di natale del 1991 don Peppino distribuisce a tutte le parrocchie dell'agro aversano un documento volto ad organizzare la testimonianza contro la mafia, intitolato "Per amore del mio popolo non tacerò". Don Peppino denuncia apertamente l'attività camorristica, ma non basta, lancia una forte accusa contro lo Stato connivente e corrotto, che non è in grado di fornire un modello di vita alternativo a quello mafioso. Infine, Don Peppino si rivolge direttamente alla Chiesa, chiedendo che essa non rinunci al suo ruolo profetico e si applichi concretamente e quotidianamente nella lotta contro la mafia. 
Dopo la pubblicazione di questo documento, don Peppino inizia una strenua lotta contro i casalesi: fa opera d'informazione nelle scuole in cui insegna, comincia a costruire un centro d'accoglienza per immigrati nel tentativo di sottrarli alla Camorra, attacca i riti religiosi dei quali la mafia si è appropriata. 
Nel frattempo gli Schiavone hanno preso il sopravvento sui De Falco, il cui boss Nunzio detto "o lupo" è fuggito in Spagna nel tentativo di ricostruire un impero economico. Don Peppino, con la sua attività di testimonianza e di denuncia a tutto campo, costituisce un pericolo tanto per gli Schiavone quanto per i De Falco, ma il suo zelo religioso e la sua completa estraneità alla Camorra fanno vacillare anche killer professionisti. Sembra che Don Peppino sia protetto dall'armatura impenetrabile della sua onestà, finché la mattina del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, due uomini entrano nella sua chiesa e gli sparano quattro colpi di pistola, uccidendolo sul colpo. 
Le indagini si concentrano subito attorno a Giuseppe Quadrano, un affiliato dei De Falco, e poco dopo la polizia viene contattata dallo stesso boss Nunzio: "o lupo" vuole fornire una propria interpretazione dei fatti. In un primo momento il boss nega di essere il mandante dell'omicidio di don Peppino, sostenendo che mai avrebbe potuto uccidere un amico di suo fratello Mario. Don Peppino è riuscito a convincere Mario De Falco a non entrare nel sistema della Camorra, un successo memorabile nella lotta contro la mafia, ma Nunzio ora se ne serve come alibi. Il boss dei De Falco, dopo aver dichiarato la propria estraneità ai fatti, accusa gli Schiavone dell'omicidio di don Peppino. Si diffonde così la notizia che è stato lo stesso Sandokan il mandante dell'omicidio, e la smentita del boss non si fa attendere: Francesco Schiavone fa sapere alla famiglia Diana che se dovesse mettere le mani su Quadrano prima della polizia lo taglierebbe in tre pezzi e lo getterebbe sul sagrato della chiesa di San Nicola. Contemporaneamente, i De Falco pianificano di tagliare in tre pezzi un membro degli Schiavone e di gettarlo nella chiesa di Don Peppino, per far ricadere la colpa dell'omicidio sul clan rivale. Evidentemente quello di Don Peppino è un corpo scomodo, la sua morte ingiustificabile perfino in un contesto abituato alle logiche mafiose. Si giunge infine all'arresto di Giuseppe Quadrano, il quale smentisce le parole di Nunzio De Falco e lo indica come mandante dell'omicidio. Durante gli interrogatori Quadrano cambia più volte versione, indica diversi esecutori dell'assassinio, ma soprattutto suggerisce moventi fittizi per trascinare don Peppino nel fango della Camorra ed evitare che diventi un martire. I giornali locali, controllati dalla Camorra, screditano la figura di don Peppino davanti all'opinione pubblica accennando a presunti scandali sessuali in cui sarebbe stato coinvolto e a debiti contratti con influenti membri dei clan. 
La sentenza giunge solo nel 2003: Giuseppe Quadrano e Nunzio De Falco vengono condannati all'ergastolo in quanto rispettivamente esecutore materiale e mandante dell'omicidio di Giuseppe Diana. Viene inoltre esplicitamente affermato che le insinuazioni di Quadrano hanno avuto lo scopo di depistare le indagini e di calunniare Giuseppe Diana.
Oggi, 19 marzo 2010, è il XVI anniversario della morte de Don Peppino, è il giorno del suo onomastico: ricordiamo un martire, perché la sua testimonianza non vada perduta.


4 commenti:

Andrea T. ha detto...

Vorrei 2 spiegazioni, collegate fra loro:

"ma il suo zelo religioso e la sua completa estraneità alla Camorra fanno vacillare anche killer professionisti." - i killer hanno cercato di assassinarlo prima del '94?

"Peppino è un corpo scomodo, la sua morte ingiustificabile perfino in un contesto abituato alle logiche mafiose." - perchè ingiustificabile?

Poi: " attacca i riti religiosi dei quali la mafia si è appropriata. " - quali? e perchè la mafia se ne è appropriata?

Veramente un personaggio degno di nota. E' vergognoso che non si senta nominare quasi mai.

Tommaso Ramella ha detto...

Domande molto importanti Andrea, mentre scrivevo il testo mi sono dovuto imporre una certà brevità,ma meritano sicuramente una risposta.

1)durante le indagini è venuto fuori che, dopo aver deciso di uccidere don Peppino, tra i De Falco non si riuscivano a trovare due persone che fossero disposte ad eseguire l'ordine. Prima uno dice di star male, poi un altro si tira indietro la notte prima, un terzo viene scartato perchè soffrendo di epilessia si teme che in una situazione del genere possa cadere in preda alle convulsioni. Il fatto stesso che don Peppino abbia operato dall'89 al '94 a Casal di Principe rimanendo incolume ti da un'idea di quanto difficile fosse eliminarlo, e non certo per via di scorte o cose del genere, visto che era del tutto indifeso da quel punto di vista.

2)perchè, come don Peppino aveva capito molto bene,la mafia fonda il suo sistema su una base culturale ben precisa,e come un tumore la distorce e la corrompe. Tuttavia, se la base culturale viene meno, la mafia perde il contatto col territorio, poichè la mafia, come tutti i parassiti, funziona sfruttando un altro organismo, che può essere il singolo individuo, un paese o lo Stato stesso. Il contesto culturale in cui opera la mafia è fortemente cattolico. La mafia riesce ad aggirare i dettami della Chiesa come "non uccidere" presentando gli omicidi come necessarie risoluzioni di questioni d'onore all'interno dei clan. In un certo senso, ogni persona che accetti di far parte del sistema camorristico, accetta contemporaneamente di venir assassinato, e non solo, ma che questo venga riconosciuto come un atto giusto. Don Peppino però non fa parte della Camorra, non ha debiti con nessuno, non ha tradito nessun clan perchè non ha mai fatto parte di un clan: è un civile, e per di più un uomo di chiesa, visto perciò con particolare riguardo dalla popolazione. Quando viene ucciso, non c'è alcuna spiegazione plausibile da dare in pasto alla popolazione. A questo, come spiegato nell'articolo, pongono rimedio la stampa locale e Quadrano, con l'arma della calunnia.

Tommaso Ramella ha detto...

3) il terzo punto riprende il secondo. La mafia si è appropriata di certi riti religiosi già ampiamente diffusi tra la popolazione e li ha distorti per adattarli al suo sistema pur mantenendo un forte legame con la gente. Se un'organizzazione criminale mostra di essere praticante, di venerare la Madonna, di rispettare i riti tradizionali del cattolicesimo, può contare su un consenso popolare estremamente solido. Non conosco bene i riti mafiosi, ma ti faccio alcuni esempi che traggo da "Gomorra" di Saviano:

1)il matrimonio: il simbolo più forte dell'alleanza fra due famiglie mafiose è ancora l'unione di un uomo e una donna presieduta da un padrino

2)il culto della Madonna: ci sono innumervoli aneddoti riguardo processioni compiute da boss mafiosi in seguito a vittorie sui clan rivali

Quello che don Peppino cercava di fare era spiegare alla popolazione che questi riti erano stati corrotti dalla mafia per secondi fini. Voleva togliere da sotto i piedi alla mafia il terreno culturale su cui poggiava, la sua base di consenso.

Andrea T. ha detto...

Grazie, tutto assai interessante.