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31/03/10

Il paganesimo nel culto cristiano

di Lorenzo Natural

Nella nostra società, nonostante il lento declino del numero di Cristiani praticanti, il giorno di Natale viene visto come una ricorrenza di cui la maggior parte di noi non può fare a meno; il 25 dicembre viene festeggiato in quasi ogni casa: si va dalla cena della sera della Vigilia, allo scambio dei regali, dal rituale del pranzo con i familiari alle telefonate di auguri a parenti e amici, lontani e vicini. Non sono molti, tuttavia, coloro che festeggiano il Natale secondo i dettami della religione cristiana -sia essa cattolica, protestante, ortodossa o di qulunque altra confessione; molti, infatti, sebbene non si ritengano Cristiani praticanti, o addirittura atei, vedono il giorno di Natale, e il periodo ad esso correlato, come un'occasione di ritrovare un momento di vicinanza con le persone più care, un piacevole periodo dell'anno teso a rinsaldare i legami familiari troppo spesso dimenticati. Per altri, invece, il Natale non è altro che una festività imposta loro, ma neppure questi ultimi si esimono di partecipare alla grande caccia al regalo che imperversa la settimana precedente il 25 dicembre. Insomma, verrebbe da dire che questo giorno particolare si è talmente radicato in noi e nella nostra società, da esserne diventato parte integrante.
La levata di scudi da parte della Chiesa contro questa visione consumistica -o perlomeno distorta- del Natale arriva puntuale ogni anno: ci viene ricordato come il 25 dicembre rappresenti il giorno del Signore, la nascita di Cristo, la venuta di Dio -che si fa uomo- sulla Terra, per salvare l'Umanità dal male. Criticare negativamente chi cerca di difendere il vero -secondo lui- significato del Natale, ma anche chi vede questa data come una festività qualsiasi, esula dai propositi che si pone questo articolo: ogni singola persona avrà in merito un'opinione diversa.

Tuttavia, quando si parla di "rimando alla Tradizione Cristiana" per quanto riguarda il 25 dicembre, non si può non tenere in considerazione ciò che veramente rappresenta questo giorno, e ciò che ha significato per tutti gli uomini che hanno vissuto su questo pianeta da 5000 anni fa fino all'espansione e alla grande conversione cristina che ha investito gran parte delle terre europee e non solo, a partire dal I secolo (naturalmente tracciare una cartina ben delineata di questa conversione è di difficile attuazione, come appare difficile affermare in che proporzioni sopravvive la componente cosiddetta "pagana", fedeli agli antichi culti delle divinità naturali).
Il Cristianesimo, ma assieme ad esso altri numeorsi culti, rivendica la paternità del 25 dicembre come data-chiave per la propria dottrina: in quel giorno, 2010 anni fa, nacque Gesù Cristo, annunciato da una stella dell'Est e partorito dalla vergine Maria, e che dopo aver divulgato il messaggio di Dio assieme ai suoi dodici discepoli venne crocifisso, per poi risorgere tre giorni dopo. Ma come abbiamo già detto, numerosi altri culti fanno risalire a questa data la nascita di svariate divinità, attribuendo ad esse caratteristiche e attività svolte molto simili a quelle riconducibili alla figura di Gesù: Dioniso, divinità della mitologia trace e greca, nato il 25 dicembre da Zeus e da una vergine, crocifisso e risorto dopo tre giorni; Horus, divinità egizia nata dalla vergine Isis-Meri il 25 dicmbre, seguito da dodici discepoli -e tradito da uno di essi-, morto crocifisso e risorto tre giorni dopo; Attis, divinità frigia, anch'esso nato il 25 dicembre e risorto dopo esser stato crocifisso; Mitra, persiano, nato il 25 dicembre da una vergine, morto e risorto tre giorni dopo. Oltre a questi culti, ce ne sono decine e decine che riprendono buona parte dello schema della vita di Gesù Cristo e di queste divinità: da Zoroastro a Odino, da Baal a Quirino, da Krishna a Bali, solo per citarne i più conosciuti.
Ma tutto questo perché? Cosa ha spinto popoli così lontani tra loro e così diversi ad incentrare il culto della propria divinità seconda una griglia ben definita? Com'è possibile che il Cristianesimo abbia così tante similitudini con antichi culti, che sono stati, da sempre, definiti dalla Chiesa e dalla teologia, come credenze mitologiche e nulla più? Possibile che dietro a tutto ciò ci sia un'unica orgine?
La risposta è 'sì': tutti questi culti si rifanno senza dubbio a uno dei culti più antichi, ovvero quello del Sole, risalente alla notte dei tempi dell'umanità, e che da sempre rappresenta il culmine dell'idolatria rivolta agli elementi naturali.
Discorrendo tra le varie peculiarità che caratterizzano la figura di Cristo e di tutte le altre divinità -ma per comodità basterà rifarsi al Messia cristiano per confrontarne le similitudini- ci si accorge quanto tutte queste caratteristiche attingano alla tradizione astronomica del culto del Sole.
Innanzitutto, la scelta del 25 dicembre. Come ben sappiamo, il 22 dicembre ricorre il Solstizio d'inverno: il Sole, nell'emisfero settentrionale, tocca il punto più basso dell'anno, rendendo la notte la più lunga di tutte quelle dei 365 giorni. Tra il 22 ed il 24 dicembre, il Sole si muove in modo quasi impercettibile verso Sud, tanto da "sembrare fermo" (come fosse morto!). Curioso appare poi che questo leggero movimento non avvenga in direzione di una costellazione dal nome qualsiasi, ma bensì della cosiddtta Croce del Sud. Terminata questa fase di apparente stallo, il 25 dicembre la stella più vicina alla Terra si muove di circa un grado, non più però in direzione Sud, bensì in direzione Nord, preludendo giornate più lunghe e una luce che piano piano torna a riaffacciarsi più forte e potente nel nostro emisfero.
Ora, le similitudini che intercorrono tra la nascita di Cristo, ma soprattutto la sua resurrezione avvenuta dopo tre giorni, dopo esser stato messo in croce, e l'effettiva "nascita-rinascita" del Sole nei cieli a Nord dell'Equatore, ci appaiono sorprendenti.
Sempre per quanto concerne altri elementi correlati alla nascita di Gesù, pare indiscutibile come la tradizione cristiana abbia ripreso quella pagana.
La Bibbia e il Vangelo indicano come luogo di nascita del Messia la città di Betlemme, traduzione italiana dell'ebraico Beit Lehem, ossia "casa del pane"; la madre, Maria, invece, viene identificata come una vergine. Appare sorprendente che la costellazione della Vergine venga indicata anche come "casa del pane": infatti, la costellazione è formata da una vergine stilizzata che tiene un covone di grano, simbolo che viene associato alla vendemmia e alla mietitura. Inoltre, il simbolo che viene utilizato in astrologia per indicare questo segno zodiacale riprende un antico geroglifico egizio, che ci appare simile ad una "M": non a caso molte delle madri vergini delle divinità prima elencate hano nomi che iniziano con questa lettera (basti pensare a Maria, a Maya, a Mira...).
E sempre secondo la tradizione cristiana, la nascita di Cristo venne annunciata ai tre Magi e al popolo da una "stella dell'Est": se il 24 dicembre analizziamo un quadro astronomico, ci accorgiamo che Sirio, la stella più luminosa del cielo, si trova allineata alle tre stelle principali della Cintura di Orione -dette "i tre re", riamando evidente ai Magi-, per poi essere perfettamente in asse con la prima il giorno successivo, ossia il 25.
Di natura astronomica risulta essere anche la scelta del numero '12' come numero sacro. Considerando la figura di Gesù come metafora della divinità solare, i dodici discepoli richiamano subito i dodici mesi dell'anno attraverso cui il Sole si muove durante l'anno (ma anche i dodici segni zodiacali se vogliamo rifarci all'astrologia piuttosto che all'astronomia, tenendo conto che le due discipline sono spesso avvicinabili per quanto concerne lo studi dei culti pagani). Per rimarcare l'importanza di questo numero, basti pensare che nella Bibbia esso ricorre in muerosi episodi: sono dodici le tribù, i re ed i giudici d'Israele, i grandi patriarchi, i fratelli di Giuseppe, senza scordare che proprio a dodici anni Gesù entra nel tempio per la prima volta.
A riprova di ciò, supporta questa tesi il simbolo pagano della croce celtica (una croce iscritta in un cerchio), che erroneamente a quanto si crede, non fu utilizzata per primo da Sant'Agostino per testimoniare il sincretismo cristiano-pagano dei paesi celti, ma affonda le proprie radici, appunto, nel culto solare. La croce -che è formata da due assi che ai loro vetici indicano i due solstizi e i due equinozi- divide, infatti, in quattro sezioni -le quattro stagioni- lo zodiaco: al centro, il Sole è rappresentato con un cerchio.
Da notare che, come avevano già individuato gli Egizi, ogni 2150 ani, all'alba dell'equinozio di primavera, il Sole sorge in corrispondenza di un diverso segno zodiacale, in accordo con il fenomeno detto "precessione degli equinozi". Per compiere un intero giro attraverso le dodici costellazioni, il Sole abbisogna di 25765 anni, ossia 2150 per ogni "spostamento" di segno. Secondo gli Egizi, oggi, e per i prossimi 140 anni, ci troviamo nell'Era dei Pesci, Era che lasceremo poi per entrare in quella dell'Acquario, il segno che segue. Appare curioso che in un versetto del Vangelo di Luca, Gesù inviti il popolo a seguire "un uomo che porta una brocca d'acqua" per festeggiare la Pasqua, una volta che egli non sarà più presente: è l'invito di Gesù -tradizionalmente conosciuto come un pescatore, e adirittura simboleggiato da un pesce stilizzato- ad entrare nell'Era dell'Acquario, una volta terminata quella dei Pesci.
Ricercare le origini di una religione non ci permette soltanto di passare al settaccio tutta una serie di errori storici e di false convinzioni che ci sono state tramandate come vere: cercare di comprendere la provenienza di un culto, la sua essenza intrinseca ci aiutano a capire l'intera storia dell'umanità, e dei rapporti che -volente o nolente- sono da sempre intercorsi tra gli uomini e ciò che viene definito come divino.
Arrivare a dimostare senza margine di errore la comunanza tra una religione affermata come il Cristianesimo e culti che vengono dai più considerati come mere superstizioni legate al passato, è sicuamente molto difficile. Tuttavia riscontrare come la figura principale di una religione, ossia Gesù Cristo, ma non dimenticando tutte le altre, abbia dei punti di contatto così evidenti con un culto pagano legato a fenomeni astrologici e naturali ci deve far riflettere. Venerare il Sole, l'Aria, il Fuoco, o qualsiasi altro elemento naturale potrebbe apparire qualcosa di atavico e lontano dal nostro pensiero; ma rendersi conto che le nostre vite dipendono in buona parte da questi elementi e da questi fenomeni rappresenterebbe un bel passo avanti per cercare di carpire il significato di rispetto per la Natura che, sotto sotto, le religioni portano con sé.

27/03/10

«I now walk into the wild»

di Stefano Tieri


Un racconto di un viaggio, di una ribellione, di un incontrastabile bisogno di dire “no”. Di un viaggio: un pellegrinaggio che porterà - come vedremo, analizzandone il perché - alla meta estrema dell'Alaska. Di una ribellione: contro l'uomo e la sua morte spirituale. Del bisogno di dire “no”: alla globalizzazione, alla società dei consumi, alla massa imbelle che si trascina avanti sopravvivendo, più che vivendo. Ed è la vita che cerca un giovane ragazzo di vent'anni, non la stabilità del così detto “progresso”, portatore delle più diverse alienazioni: in un mondo in cui ci si riduce a parlare attraverso uno schermo, senza alcun contatto umano, in un'eterna simbiosi uomo-macchina, l'uomo perde lo stesso significato della sua vita, la sua dimensione sociale («happiness only real when shared», annota infatti Chris). Non avendo più a che fare con uomini, ma con automi consumistici, Chris decide di abbandonare tutto e tutti, alla ricerca di un mondo incorrotto.


Fuggire... Separarsi da quell'identità che tanto gli pesa, affinché possa trovare l'identità che gli è propria, ancora da definire. Il primo passo non può che essere quello di dare fuoco alla sua vecchia immagine, bloccata in un sorriso forzato, affiancata da dati e cifre che definiscono univocamente la sua persona. Bruciare la carta d'identità, il Bankomat, il denaro in contanti restante. Addio vecchio mondo, per il quale ora non è più nessuno, benvenuta libertà. «Libertà estrema; un estremista, un viaggiatore esteta che ha per casa la strada».
Nuova nascita, nuova vita: quella del vagabondo, uomo senza tempo, capace di rimanere ore ed ore ad osservare il lento frangersi delle onde sul mare, il volo dei gabbiani sul bagnasciuga, di sentire la voce del vento, tessendo un dialogo con lui... Questo perché non un impegno impellente scandisce la sua vita: solo il vagabondo - o lo spirito che si sente tale - ha la forza di fermarsi a contemplare, uscendo dalla logica corrotta che vede equivalenti il tempo e il denaro. Dove non c'è il tempo, il denaro non ha ragione d'essere. La velocità non è più un valore, e agli occhi del vagabondo l'affannarsi delle grandi metropoli appare folle.
Non a caso ad aspettarlo in Alaska troverà un autobus privo di ruote, e perciò immobile - ma non per questo inutile - in opposizione alla frenesia del mondo “civilizzato” che viaggia a velocità sempre maggiori, perdendo il legame con la terra sulla quale vive. Quel legame che Chris cercherà di ristabilire proprio in Alaska...


Perché l'Alaska? Qui non c'è traccia di uomo; visto cosa l'uomo è diventato, solo qui Chris - o meglio Alexander, il nome scelto per la nuova identità - potrà scoprire cosa l'uomo è in realtà: la sua natura più profonda e indomita, la riscoperta del silenzio e della seguente meditazione, la forza del vento e delle tempeste.
Solitudine come preludio di libertà, se la libertà è l'imposizione di un proprio pensiero, capace di sovrastare la miriade di non-pensieri di cui è permeata la società: è in solitudine che la mente apre le porte all'infinito, ed è il silenzio il principale alleato in questa guerra di imposizione del proprio io.
Non è soltanto questo però il motivo della scelta dell'Alaska: si viaggia per entrare in contatto con identità sconosciute ed estranee, confrontando le quali alla propria è possibile rafforzarla e delinearla meglio. In un mondo come il nostro però, governato dalle leggi della globalizzazione - la quale unifica culture e tradizioni - nessun posto può darci quella sensazione di estraniamento dinanzi al nuovo da cui scaturisce il confronto fra diverse culture. Questo perché non esistono più diverse culture, o meglio esistono ma in luoghi sempre più remoti (e non è un caso che col passare degli anni le mete dei viaggi “di piacere” si spostino sempre più lontano da casa). Dove c'è l'uomo arriva anche la globalizzazione (presto o tardi che sia); ecco allora la risposta: scegliere un luogo in cui l'uomo non c'è.


«L'apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore sugella vittoriosamente la rivoluzione spirituale»: tutto è tratto da una storia vera, una storia di una ventina d'anni fa. Eppure tutto rimane molto attuale, guardandosi attorno.

19/03/10

Ricordando don Peppino Diana


di Tommaso Ramella

Giuseppe Diana nasce nel 1958 a Casal di Principe, in provincia di Caserta. All'età di dieci anni entra in seminario, dove frequenta la scuola media e il liceo classico, quindi si trasferisce a Posillipo per proseguire gli studi di teologia e a Napoli per laurearsi in filosofia. Nel 1978 entra a far parte dell'AGESCI (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani), dove è caporeparto. Nel 1982 viene ordinato sacerdote e comincia a lavorare con gli scout d'Aversa. E' il 1989 quando Giuseppe Diana, ormai noto a tutti come don Peppino, decide di far ritorno a Casal di Principe come parroco della chiesa di San Nicola di Bari. Ha solo 31 anni don Peppino, ma ha già visto scorrere fiumi di sangue per le strade del suo paese natale: nel corso degli anni '80 nell'agro aversano è dilagata una guerra fra il cartello camorristico di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata, e quello di Antonio Bardellino, la Nuova Famiglia. E' una vera e propria "mattanza", solo tra il 1980 e il 1981 si contano 400 vittime. Dopo anni di guerra sanguinosa Antonio Bardellino prevale e fonda il clan dei casalesi. Nel 1988, un anno prima che Don Peppino torni a Casal di Principe, all'interno della Nuova Famiglia scoppia una faida che porta all'uccisione di Antonio Bardellino: a prenderne il posto alla guida del clan è Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ben presto, tuttavia, avviene una nuova scissione tra i casalesi: un gruppo di famiglie capeggiate dai De Falco si allea contro gli Schiavone, nel tentativo di prendere il controllo del clan. E' proprio mentre l'ultima guerra tra gli Schiavone e i De Falco insanguina il paese che Don Peppino arriva a Casal di Principe. La situazione è critica: ditte, appalti, polizia, comune, tutto è controllato dai casalesi. 
Don Peppino decide di reagire. Si rende conto che non è sufficiente dare conforto alle vittime, bisogna combattere la mafia, contrastarne le dinamiche di potere, i fondamenti economici, sociali e culturali. Il giorno di natale del 1991 don Peppino distribuisce a tutte le parrocchie dell'agro aversano un documento volto ad organizzare la testimonianza contro la mafia, intitolato "Per amore del mio popolo non tacerò". Don Peppino denuncia apertamente l'attività camorristica, ma non basta, lancia una forte accusa contro lo Stato connivente e corrotto, che non è in grado di fornire un modello di vita alternativo a quello mafioso. Infine, Don Peppino si rivolge direttamente alla Chiesa, chiedendo che essa non rinunci al suo ruolo profetico e si applichi concretamente e quotidianamente nella lotta contro la mafia. 
Dopo la pubblicazione di questo documento, don Peppino inizia una strenua lotta contro i casalesi: fa opera d'informazione nelle scuole in cui insegna, comincia a costruire un centro d'accoglienza per immigrati nel tentativo di sottrarli alla Camorra, attacca i riti religiosi dei quali la mafia si è appropriata. 
Nel frattempo gli Schiavone hanno preso il sopravvento sui De Falco, il cui boss Nunzio detto "o lupo" è fuggito in Spagna nel tentativo di ricostruire un impero economico. Don Peppino, con la sua attività di testimonianza e di denuncia a tutto campo, costituisce un pericolo tanto per gli Schiavone quanto per i De Falco, ma il suo zelo religioso e la sua completa estraneità alla Camorra fanno vacillare anche killer professionisti. Sembra che Don Peppino sia protetto dall'armatura impenetrabile della sua onestà, finché la mattina del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, due uomini entrano nella sua chiesa e gli sparano quattro colpi di pistola, uccidendolo sul colpo. 
Le indagini si concentrano subito attorno a Giuseppe Quadrano, un affiliato dei De Falco, e poco dopo la polizia viene contattata dallo stesso boss Nunzio: "o lupo" vuole fornire una propria interpretazione dei fatti. In un primo momento il boss nega di essere il mandante dell'omicidio di don Peppino, sostenendo che mai avrebbe potuto uccidere un amico di suo fratello Mario. Don Peppino è riuscito a convincere Mario De Falco a non entrare nel sistema della Camorra, un successo memorabile nella lotta contro la mafia, ma Nunzio ora se ne serve come alibi. Il boss dei De Falco, dopo aver dichiarato la propria estraneità ai fatti, accusa gli Schiavone dell'omicidio di don Peppino. Si diffonde così la notizia che è stato lo stesso Sandokan il mandante dell'omicidio, e la smentita del boss non si fa attendere: Francesco Schiavone fa sapere alla famiglia Diana che se dovesse mettere le mani su Quadrano prima della polizia lo taglierebbe in tre pezzi e lo getterebbe sul sagrato della chiesa di San Nicola. Contemporaneamente, i De Falco pianificano di tagliare in tre pezzi un membro degli Schiavone e di gettarlo nella chiesa di Don Peppino, per far ricadere la colpa dell'omicidio sul clan rivale. Evidentemente quello di Don Peppino è un corpo scomodo, la sua morte ingiustificabile perfino in un contesto abituato alle logiche mafiose. Si giunge infine all'arresto di Giuseppe Quadrano, il quale smentisce le parole di Nunzio De Falco e lo indica come mandante dell'omicidio. Durante gli interrogatori Quadrano cambia più volte versione, indica diversi esecutori dell'assassinio, ma soprattutto suggerisce moventi fittizi per trascinare don Peppino nel fango della Camorra ed evitare che diventi un martire. I giornali locali, controllati dalla Camorra, screditano la figura di don Peppino davanti all'opinione pubblica accennando a presunti scandali sessuali in cui sarebbe stato coinvolto e a debiti contratti con influenti membri dei clan. 
La sentenza giunge solo nel 2003: Giuseppe Quadrano e Nunzio De Falco vengono condannati all'ergastolo in quanto rispettivamente esecutore materiale e mandante dell'omicidio di Giuseppe Diana. Viene inoltre esplicitamente affermato che le insinuazioni di Quadrano hanno avuto lo scopo di depistare le indagini e di calunniare Giuseppe Diana.
Oggi, 19 marzo 2010, è il XVI anniversario della morte de Don Peppino, è il giorno del suo onomastico: ricordiamo un martire, perché la sua testimonianza non vada perduta.


15/03/10

Get lost in translation

di Eliana Arnò


Mi sono da poco soffermata sullo studio delle traduzioni italiane di titoli di film di produzione francese.
Sono tanti i commenti che si sprecano sulle traduzioni dei titoli di film. Come non citare il citatissimo caso del film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, tradotto con quella che sembra essere in Italia, e non a ragione, una commedia sentimentale: Se mi lasci ti cancello.
Un pò di tempo fa, girovagando per internet, ho letto il titolo di una tesi molto significativo: Se mi traduci mi cancello.
Questo titolo mi ha fatto riflettere su alcune cose. Cos'è un titolo? Qual è il suo obiettivo? E cosa vuol dire tradurre? Cercherò di darmi alcune risposte.
Il titolo, come la data di pubblicazione di un libro, o come il nome della traduttrice o del traduttore, è parte integrante di un'opera. E' l'elemento che, più di altri, è in grado di insinuarsi nella cultura di un paese fino a rimanerne cristallizzato in modi di dire, in forme proverbiali o idiomatiche: "Neverland è il ranch californiano di Michael Jackson, divo vistosamente afflitto dalla sindrome di Peter Pan"; "In Puglia il primo laboratorio: ma non guiderò un'armata brancaleone", titoli di articoli tratti dalla Repubblica.
Il titolo porta con sé segnali culturali, comunicativi e persuasivi, a seconda dei quali intende nominare, informare e sedurre. Le sei funzioni della lingua di Jakobson possono essere tutte indossate dal titolo, anzi, il titolo veicola con maggiore evidenza, data forse la sua caratteristica principale, la brevitas, le funzioni che assolve.
Se ci spostiamo in direzione della traduzione applicata ai titoli, è necessario considerare questa affermazione di Christiane Nord (1995: 265):

In un'ottica traduttiva, la funzionalità del titolo dell'opera originale dev'essere distinta dalla funzionalità del titolo del testo tradotto.


Questa frase riassume in maniera efficace il mio pensiero.
Se pensiamo che la traduzione consista esclusivamente nel riportare "fedelmente" il testo di partenza in una lingua diversa dall'orginale non ci troviamo d'accordo. Tradurre letteralmente, cioè parola per parola, è solo una delle strategie possibili. Nessuna strategia è migliore o peggiore di altre, per quanto alcune possono essere più consone di altre in certe occasioni. Ogni scelta traduttiva deve confrontarsi con usi e costumi di un paese, con le sue tradizioni, con la sua storia, e con la volontà comunicativa propria di ogni titolo, di ogni film e di ogni casa di distribuzione cinematografica. Mi preme ricordare che lo studio della traduzione dei titoli di film non può riguardare solo la traduzione: basti pensare che tra i fattori che più influiscono sulla scelta di un titolo, originale o tradotto, vi è il successo ai botteghini. Un principio a cui rispondono tutti i titoli, infatti, è attirare più spettatori possibile. Il titolo deve sedurre; il film dev'essere visto; chi traduce è quindi un commerciante di titoli e un conoscitore dei gusti della gente. In quest'ottica commerciale, gli aspetti che in genere riguardano la traduzione passano in secondo piano: la cosiddetta "fedeltà" al titolo originale e la funzione che questo assolve nella lingua originale.
Secondo un'ottica traduttiva, invece, bisogna chiedersi quale funzione svolga il titolo tradotto. Sono molti i casi di titoli tradotti che si allontanano dal titolo originale fino a non rendere possibile una connessione tra gli uni e gli altri. La strategia della creazione, per esempio, producendo un nuovo titolo, il quale si nutre di un rapporto nuovo col titolo originale, non presta attenzione alla "fedeltà" rispetto al titolo originale. Ma la traduzione non ha come unico scopo la "fedeltà" al testo di partenza. Sarebbe opportuno chiedersi, allora, a che cosa essere fedele: al testo di partenza o alle caratteristiche della cultura che accoglierà il nuovo testo?
La fedeltà può anche perdersi nella traduzione. Ma siamo sicuri che si tratti di traduzione infedele?