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19/02/10

Trieste. La morte di Oberdank.

di Omar Longo.


Ogni volta che scrivo su Trieste soffia la Bora. La penna è scossa dalle raffiche, ondeggia sul foglio stendendo ciò che la città sussurra. Lungo le Rive il disco amaranto del sole si eclissa alle spalle di Venezia. I lampioni sono già accesi da quasi un'ora lungo i viali. Le auto sfrecciano zigzagando, evitando il vento e i pedoni che mani in tasca, collo ricurvo, si muovono velocemente intirizziti dal freddo.
Gli angoli del foglio svolazzano, la carta vibra.
Centinaia, migliaia di lampioni ovunque: sentinelle del giorno che rubano spazio alla notte che assedia la città. Grappoli di luce dal palo inarcato, come stanco dal peso.
E per le vie della città, ad ogni lampione, per illuminarne anche nel buio l'esempio, un Oberdan impiccato. Centinaia, migliaia di Oberdan ovunque. Le autorità hanno deciso che non bisogna dimenticare il sacrificio di un proprio figlio. In ogni luogo pubblico hanno issato la sagoma dell'eroe pendente dipinto di verde, bianco e rosso. Con il vento, a molti Oberdan sono volate le scarpe. Alcuni sono volati per intero, finiti chissà dove, magari impigliati tra i rami della pineta di Barcola. Sono casi rari: da sempre il governo si assicura di fornire corde resistenti. Sui pennoni e sulle alabarde, persino sul tettuccio degli autobus, sventola il cadavere tricolore per rinnovare quotidianamente il ricordo del martirio. L'uomo che pende dice che in molti sono morti affinché questa terra appartenesse all'Italia; dice che dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani. Le autorità lo lasciano dire; anzi lo obbligano a parlare. A nulla sono valse le proteste del comitato genitori preoccupato che i prorpi figli prendessero troppo sul serio l'esempio dell'eroe. Nei locali alla moda alcuni dirigenti di banca hanno iniziato a portare cravatte rigide rivolte verso l'alto. Oberdan fa tendenza. Piazze, vie, scuole prendono il suo nome.
Lo guardo pendere dal lampione: la luce rasente ad illuminarne il profilo, la barba poca folta, la linea delle spalle. Il vento lo muove in modo tale che sembra camminare nell'aria: un passo, il secondo, un terzo, poi indietro e di nuovo un, due, tre. Sta ballando. A mezz'aria, sospesi sopra le entrate dei negozi di Corso Italia, gli Oberdan si sciolgono in una danza macabra. Perché le autorità si ostinano a farli danzare senza posa fiaccando i giovani respiri? L'Italia, terra dell'arte e della cultura, ha molte altre salme da riesumare e da mettere in mostra. Perché non issare un Dante, un Leonardo oppure un Giordano Bruno? Il sindaco già si è espresso a favore di Oberdan perché più pratico d'appendere; ma non può essere solo questo. Perché allora? Perché Oberdan è l'unione di due culture che hanno caratterizzato Trieste: quella italiana e quella slovena, troppo spesso divise e in lui unite. Un politico mi sembra falso anche solo se respira. L'Italia è la madre di Oberdan e come tale deve celebrare il proprio figlio.
Semmai è il padre, un padre di origine veneta che lo ha abbandonato, mentre la madre, colei che gli ha dato il cognome, è slovena. Nell'Olimpo degli italiani di Trieste, il semidio italo-sloveno Oberdan doveva morire da eroe per assurgere al livello del padre, e così è stato. Secondo Elio Apih, a Trieste si ricordano due momenti nella storia dell'irredentismo: il primo periodo copre gli anni tra il 1878 e il 1882, fino alla morte di Oberdan e alla firma della Triplice Alleanza; il secondo periodo è successivo e spiccatamente antislavo. Ma il paladino dell'unione delle due culture è morto come Oberdan, non come Oberdank. Ha rinnegato il suo nome o come si usa dire lo ha italianizzato volontariamente, assetato di conformismo, per sentiri accettato in una terra che gli faceva pesare le sue origini. Appendendolo a tanti lampioni in giro per la città le autorità hanno voluto dare l'esempio del buon slavo che volontariamente si italianizza dimenticando chi è veramente.
Ora che lo guardo con più attenzione riconosco in lui non il martire impiccato, ma la pianta sradicata, le radici all'aria a rinsecchire volontariamente. La Bora abbatte gli alberi che rinunciano alle radici.
Oberdan è asceso all'Olimpo italiano, con le cervicali, zoppo, ma pur sempre eroe.

1 commenti:

Lorenzo Natural ha detto...

Dopo ogni articolo tuo, Omar, prendo sempre più coscienza dell'ambiguità e dell'unicità di Trieste, di cui Wilhelm/Guglielmo Oberdan(k) ne rappresenta un simbolo. E basti pensare come cambiano le cose: eroe dell'irredentismo italiano oggi, preso a sputi in faccia e impiccato non solo dalla Giustizia, ma dal Popolo stesso, prima.

Bravo Omar, come sempre bel lavoro.