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15/11/09

Sussurri da una lingua morta

di Tommaso Ramella


Prima di cominciare a leggere l'ode 3, 13 di Orazio devo fare una una breve premessa. La mia traduzione, assolutamente pedestre, non riproduce il ritmo né tanto meno la musicalità del testo oraziano, entrambi aspetti fondamentali della poesia in genere e specialmente di quella lirica.
Le odi di Orazio, a differenza di quelle greche, non erano accompagnate dalla lira, perciò il compito di produrre la melodia era affidato interamente alla parola, all'alternanza di sillabe lunghe e brevi e agli accenti melodici. Noi che ci apprestiamo a leggere una poesia di Orazio non siamo più in grado di percepire la quantità delle sillabe né gli innalzamenti e gli abbassamenti di tono: è un po' come se leggessimo il testo di una canzone di De André senza sentirne la voce e l'accompagnamento, insomma, la musica. Per distinguere la poesia classica dalla prosa si è così fatto ricorso al seguente stratagemma: in corrispondenza della prima sillaba lunga del piede (la misura che scandisce il verso) si è fatto cadere un accento intensivo, ovvero un aumento dell'intensità della voce; questo accento ha sostituito l'ictus latino, che serviva a distinguere il battere dal levare nel corso della recitazione. Ma se la lettura metrica con cui generazioni di studenti sono state torturate non è altro che una convenzione, se le nostre parole non suoneranno mai come quelle di Orazio, perchè obbedire all'erbitrio di qualche professore? Per provare a dare una risposta a questa domanda tornerò all'esempio di De André. Immaginiamo che, per disgrazia, vadano perse tutte le partiture delle sue canzoni, che non ci sia più modo di ascoltarne la voce né la musica e che tutto ciò che ci rimanga siano i suoi testi: riprodurremmo meglio un suo concerto leggendo il testo delle sue canzoni o provando a scrivere nuove partiture per cantarle? Io ritengo che non ricostruire un contesto musicale per paura di tradire De André ed Orazio costituisca un tradimento ben più grave nei loro confronti che macchiarsi di qualche arbitrio nel tentativo di mettere nuovamente a contatto il pubblico con la loro opera. Inserirò dunque nel testo latino degli accenti intensivi: che vogliate leggerli o meno, sappiate che la voce di Orazio non la sentirete.


Hor. Carmina 3, 13 (metro: strofe asclepiadea terza)


O΄ fons Ba΄ndusia΄e sple΄ndidio΄r vitro,
du΄lci di΄gne mero΄ no΄n sine flo΄ribus,
cra΄s dona΄beris hae΄do
cu΄i frons tu΄rgida co΄rnibus


pri΄mis e΄t venerem e΄t pro΄elia de΄stinat.
Fru΄stra: na΄m gelido΄s i΄nficie΄t tibi
ru΄bro sa΄nguine ri΄vos
la΄scivi΄ subole΄s gregis.


Te΄ flagra΄ntis atro΄x ho΄ra Cani΄culae
ne΄scit ta΄ngere, tu΄ fri΄gus ama΄bile
fe΄ssis vo΄mere ta΄uris
pra΄ebes e΄t pecori΄ vago.


Fi΄es no΄biliu΄m tu΄ quoque fo΄ntium
me΄ dice΄nte cavi΄s i΄mpositam i΄licem
sa΄xis, u΄nde loqua΄ces
ly΄mphae de΄siliu΄nt tuae.


O fonte Bandusia, più lucente del vetro, degna del dolce vino puro non senza fiori, domani ti verrà donato un capretto al quale la fronte turgida per le prime corna promette amore e scontri. Invano: la prole del gregge  in calore ti macchierà di rosso sangue i rivi gelidi. L'ora feroce dell'ardente Canicola non può toccarti, tu offri amabile frescura ai buoi stanchi del vomere e al bestiame errabondo. Anche tu diverrai una delle fonti celebri, dal momento che io canto il leccio che sovrasta la cava roccia dalla quale balzano giù loquaci le tue acque.


L'ode è dedicata alla fonte della ninfa Bandusia, un piccolo corso d'acqua probabilmente situato nei pressi della villa sabina di Orazio. Nell'antichità le fonti erano sacre ai poeti, poiché si diceva che fornissero loro l'ispirazione; i poeti, in cambio, rendevano celebri le fonti con il loro canto. Questa tradizione, apparentemente bizzarra, ha in realtà una spiegazione di natura tecnica: parlare dell'acqua in versi era considerata la prova più difficile per il poeta, che si vedeva costretto a rappresentare un elemento tanto mutevole e sfuggente attraverso parole fisse ed immutabili. Perciò, ogniqualvolta compare l'acqua nella poesia latina, possiamo star certi che l'autore si sta preparando ad esibire tutto il suo talento.
Orazio definisce la sua fonte splendidior vitro, più lucente del vetro: è un superlativo assoluto cammuffato da comparativo di maggioranza, visto che il secondo termine di paragone è splendidus al massimo grado. L'acqua della fonte è limpida e brilla ai raggi del sole, persino più del vetro; ma non basta, le sue acque sono degne di offerte votive quali il dolce vino puro e le corone di fiori, cioè sono sacre. Orazio comincia a descrivere un rito vero e proprio: veniamo a sapere che cras, il giorno seguente, la fonte riceverà in dono un capretto. Se Orazio ci informa che il capretto verrà donato all'indomani del giorno in cui si immagina pronunciata l'ode, possiamo supporre che si tratti di una ricorrenza, con ogni probabilità i fontanalia, una festa celebrata il 13 ottobre nel corso della quale venivano offerti alla fonte vino, corone di fiori ed un capretto.
Noterete che il verbo dono viene usato in maniera piuttosto insolita al v. 3; in italiano ci aspetteremmo una costruzione del tipo qualcuno dona qualcosa a qualcuno, dove il verbo donare viene usato in senso attivo, Orazio invece sfrutta l'opportunità concessagli dal latino e volge il verbo dono al passivo, in un'espressione simile all'italiano qualcuno riceve in dono qualcosa. Perchè Orazio ha fatto questa scelta? In fin dei conti, il latino conosceva anche la costruzione attiva del verbo dono, anzi, quest'ultima era di gran lunga la più frequente. Per scoprirlo dobbiamo porci la seguente domanda: qual'è la differenza tra queste due frasi, qualcuno donerà un capretto alla fonte e la fonte riceverà in dono un capretto? Ciò che le distingue è il numero degli elementi compositivi: la seconda espressione, quella scelta da Orazio, permette di escludere dalla scena colui che porterà in dono alla fonte il capretto, ovvero l'uomo. L'armonia del paesaggio naturale che si sta delineando verrebbe turbata dalla presenza umana, perciò Orazio si limita a citare la fonte ed il capretto, animale che ci riporta immediatamente al contesto sacrale introdotto dal v. 2. Il capretto che Orazio descrive non è un mero strumento votivo, è un essere vivente inserito nel ciclo naturale: i piccoli bozzi che ha sulla fronte, appena un accenno di corna, suggeriscono la sua forma matura, la stagione degli amori e gli scontri con i rivali. Il capretto è destinatus a tutto ciò, è già proiettato verso il futuro, quando il ciclo naturale viene bruscamente spezzato dall'avverbio frustra, che pare tagliare di netto il filo della vita dell'animale.
Prima di analizzare i vv. 6-7 apro una breve parentesi: il latino, come avrete notato fin dai primi versi, può disporre le parole in modo estremamente fluido, poiché, a differenza dell'italiano, sono le desinenze a stabilire le connessioni grammaticali tra le parole. Quando tra due parole legate grammaticalmente ne vengono inserite delle altre si forma un nesso: il lettore si aspetta che al primo termine segua quello ad esso collegato, e quando ciò non accade in lui si sviluppa una tensione che trova il proprio scioglimento solo con la comparsa della parola attesa. Il vantaggio di provocare questa tensione nel lettore è che in tal modo si aumenta notevolmente la sua partecipazione al testo: è lo stesso meccanismo che ci porta a seguire con maggiore apprensione un film carico di suspence. Se ora torniamo ai vv. 6-7, vediamo che essi sono composti da un nesso che ha come estremi i termini gelidos e rivos, in mezzo ai quali sono comprese ben quattro parole, inficiet, tibi, rubro e sanguine. Seguiamo le parole e facciamo attenzione a quello che ci dicono. gelidos, il freddo pungente di un ruscello. inficiet, le splendidissimae, gelidae acque si tingono. tibi, tutto ciò che accade avviene presso la fonte e per la fonte. rubro, viene definito meglio il tingersi delle acque, che assumono un coloro rossastro. sanguine, ciò che tinge di rosso le acque della fonte è il sangue del capretto appena sacrificato, ancora rosso e caldo. rivos, il nesso si chiude. Le limpide, gelide acque della fonte sono state tinte di rosso dal sangue ancora caldo del capretto. L'immagine, ormai vivida nella nostra mente, è solo prefigurata da Orazio, il sacrificio non si è ancora compiuto, ma ormai il destino del capretto non può essere che spargere il proprio sangue nei gelidi rivi.
L'allitterazione della r al v. 9 produce un effetto molto simile a quello della poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale e contribuisce alla descrizione della feroce calura dei meriggi estivi, quando i buoi ed il bestiame cercano refrigerio tra le acque della fonte ancora gelide, apparentemente immuni ai raggi del sole. Orazio non ha bisogno di descrivere il paesaggio, poichè la presenza di animali da allevamento suggerisce immediatamente al suo pubblico il contesto rurale divenuto topos nella poesia bucolica, una distesta di pascoli, lievi pendii, boschi e ruscelli.
L'ode volge ormai al termine ed Orazio annuncia che la fons Bandusiae raggiungerà presto la fama delle fonti più celebri, quelle già cantate dai grandi lirici greci: perché ciò avvenga egli ha ancora a disposizione tre versi, nei quali dovrà concentrare tutta la sua arte. Orazio canta un leccio che sovrasta una roccia cava, dalla cui sommità balzano giù le acque della fonte. E' una rappresentazione completa del locus amoenus, un topos letterario con il quale i poeti greci e latini erano soliti confrontarsi. Ma Orazio non si accontenta di un quadro muto, vuole dare vita alla propria opera, e lo fa riproducendo il suono dell'acqua che cade dalla roccia e zampilla sulle pietre sottostanti. La metafora lymphae loquaces è per noi lettori moderni il suggerimento più evidente di questo suono: le acque vivaci del ruscello producono un verso continuo mentre scorrono e pare che stiano chiacchierando. Eppure, per imitare il suono dell'acqua, Orazio disponeva di uno strumento di gran lunga più efficace dell'astratta metafora: disponeva del suono delle parole. Purtroppo non potremo mai sapere quale effetto producesse il verso di Orazio, visto che il latino è una lingua ormai muta; abbiamo tuttavia degli indizi dell'importanza che doveva avere l'aspetto fonico in quest'ultimo verso, ad esempio l'allitterazione della l, la rima interna lymphae - tuae e la presenza di una vocale estranea al latino, la y di lymphae. La parola lymphae, impreziosita dal vocalismo esotico, è un gioiello incastonato da Orazio nella chiusa dell'ode, una dimostrazione del suo genio poetico; un poeta minore avrebbe completato il quadro del locus amoenus con il termine aquae, le acque che balzano giù dalla roccia, ma Orazio vuole portare l'ascoltatore attento su un piano più alto, lontano dal paesaggio della campagna sabina: il termine lymphae descrive in modo concreto il processo d'ispirazione poetica, indica i flussi di idee che vengono fatti scorrere nella mente del poeta dalla divinità. A più di duemila anni dal giorno in cui Orazio pronunciò quest'ode, il suono della sua voce si è spento assieme al mormorio delle acque, ma, se si presta attenzione, si possono ancora udire i sussurri della sua Musa, la ninfa Bandusia.

4 commenti:

Andrea T. ha detto...

Ho un motto ideale quando scrivo gli articoli: le parole sono importanti.
Non posso quindi non apprezzare, in questo caso, che sei entrato nel merito delle parole per qualificare una poesia, che altrimenti, ad un profano come me, non avrebbe detto granchè.

Il titolo è assai interessante: i sussurri della Musa, la ninfa Bandusia, ma si potrebbero intendere i sussurri come la quantità di informazioni, paesaggi, suggestioni che la poesia comunica. E in questo caso dall'"operazione" culturale che hai compiuto, si vedrebbe proprio quanto una lingua morta possa parlare(e comunicare), e forte, altro che sussurri(!). Per tutti coloro che hanno le capacità per ascoltare, ovvio.

Tommaso Ramella ha detto...

Oh diamine, se questo è quello che ti ha detto questo articolo sono veramente contento, perchè è esattamente, fino all'ultima parola, quello che volevo dire (e che credo) :)

Andrea T. ha detto...

^^

Aspasia ha detto...

Analisi straordinaria. Non conoscevo quest'ode, pur apprezzando moltissimo Orazio ch'io reputo il più alto autore latino.
Leggendo le tue parole e pure quelle del poeta, si viene catapultati in una dimensione eterea ed estranea al tempo: il sangue caldo del capretto, le acque gelide della fonte e tutti gli altri elementi naturali presenti suggeriscono quelli che mancano; un attimo di limpidezza che addirittura mi ha fatto quasi sentire la brezza sul viso e il calore del sole sulla pelle.
Un'immedesimazione alquanto strana, dato che si parla di un rito a noi lontanissimo per tempo e per tradizioni!
Tutto ciò dimostra l'enorme potenziale della parola e della poesia, che tu hai saputo rendere a meraviglia.
I miei più sentiti complimenti