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02/12/09

Silone sotto il tappeto


di Piero Rosso


Capita spesso di leggere un libro e rimanerne talmente affascinati da ricercare quasi inconsciamente un approfondimento. Di un autore si scoprono così le coordinate della posizione nell’universo, storico e letterario, nel quale si colloca. Se ne circoscrive l’esistenza in un angolo ristretto e controllabile che pertanto spaventa di meno chi ne affronta l’esplorazione.

A questo punto cosa succederebbe se in questo angolo, del quale ormai ci si sente padroni, si trovasse, una variabile ingestibile, un’anomalia piccola ma sufficiente ad incrinare la sicurezza che si ha nei confronti di un argomento? Come una botola, che abita da prima di noi una casa e che rinveniamo casualmente una delle rare volte che spolveriamo sotto il tappeto. Aprirla e rischiare di trovarvi qualcosa di spiacevole o fare finta di niente, lasciarla lì dove sta e coprirla bene in modo che nessun altro la trovi, oltre che al nostro sguardo che immancabilmente andrà a posarsi curioso sul tappeto, non appena ne avrà l’occasione. Che fare?
Questa sensazione di spaesamento è quella che si prova nell’avventurarsi in quello che un tempo era il caldo e avvolgente cantuccio di Ignazio Silone. Se volessimo gettare le basi dell’arredamento di quest’angolo, inizieremmo con la sua significativa data di nascita, scelta dal padre – che decide di aspettare due giorni per farlo registrare all’anagrafe – un 1° Maggio (del 1900), per poter affermare che il suo interesse sociale, ipoteticamente lo abbia accompagnato sin dal primo giorno. Continueremmo poi con il suo nome d’arte (in realtà Severino Tranquilli), Silone, che mutua nel 1923 da Quinto Poppedius Silo, capo della resistenza dei Marsi nella guerra sociale contro Roma nel 90 a.C.; solo dieci anni dopo aggiungerà il nome Ignazio, in occasione della prima pubblicazione, ad opera di una cooperativa socialista presso Sciaffusa in Svizzera, di Fontamara. Ed è proprio questo libro che costituisce il solido mobilio del nostro angolo; denuncia sociale solida come “un mattone nello stomaco della borghesia meridionale italiana”, un romanzo in cui ogni attenzione veristica è riservata esclusivamente ai “primi contadini che appariscono di carne ed ossa nella letteratura italiana” (lettera di Silone a Gabriella Seidenfeld da Davos, 29 luglio 1930).
Ora è necessario aggiungere all’arredamento qualche pianta, le radici che Silone getta nell’essere nel 1921 tra i fondatori del PCI di Togliatti e Gramsci. Nel 1927 a Mosca, dove si reca con Togliatti alla riunione dell’esecutivo del Komintern, in occasione della liquidazione di Trotzkij e della stalinizzazione, nasce in lui una crisi nella fede comunista che si concretizza nel 1931, quando lascia il partito alla ricerca di un socialismo autonomo, privo delle ideologie di cui la nevrosi PCI sembra essere infetta. È estremamente convinto che ogni partito antitotalitarista sia destinato a diventare, una volta al potere, il sostituto del regime che ha appena rovesciato. In Pane e Vino del 1935 scrive:
Ogni idea nuova per propagarsi, si cristallizza in formule; per conservarsi si affida a un corpo di interpreti, prudentemente reclutato, talvolta anche appositamente stipendiato, e a ogni buon conto, sottoposto a un’autorità superiore, incaricata di sciogliere i dubbi e reprimere le deviazioni. Così ogni nuova idea finisce sempre col diventare un’idea fissa, immobile, sorpassata. Quando questa idea diventa dottrina ufficiale dello Stato, allora non c’è più scampo.


Parole dettate dal suo profondo pessimismo politico, che però non gli sono mai servite da alibi per fuggire dalla lotta sociale.
Poi, signore e signori, quando l’angolo è ben arredato e accogliente, si scopra e si apra la botola: il Silone, si firma Silvestri, che intraprende relazioni informative con la Questura di Roma sulle attività delle organizzazioni comuniste, relazioni iniziate ben dieci anni prima dell’arresto per militanza clandestina del fratello Romolo – dunque esclusa l’ipotesi di una collaborazione al fine di salvarlo dal carcere. Sotto il tappeto troviamo un uomo completamente diverso dallo scrittore. Scopriamo di averlo studiato solo di profilo, il Silone dimezzato, e di non esserci accorti della sua doppia natura, di avergli creduto e di essere stati ingannati.
È ormai certo che i primi dispacci di Silone risalgano al 1923, inviati al commissario della questura Guido Bellone, poi ispettore generale presso la divisione Polizia politica, che fu l’unico funzionario di polizia con cui lo scrittore ebbe rapporti. Non è sicuro però come cominciarono; un suo probabile arresto nel 1919 potrebbe far pensare ad un ricatto: la sua liberazione in cambio di informazioni; tattica usata spesso dalla polizia con i militanti giovani e inesperti. Nuovamente in Pane e Vino Silone inserisce un personaggio che è stato profondamente rivalutato dalla critica alla luce delle nuove scoperte: Luigi Murica. Appare interessante un suo dialogo:
«[racconta del suo arresto per militanza] venni schiaffeggiato e sputacchiato durante un’ora. Forse avrei sopportato più volentieri delle violente battiture, piuttosto che quegli schiaffi e sputi. Quando la porta della sala si aprì e comparve il funzionario che doveva interrogarmi […] sgridò, o finse di sgridare i suoi subalterni, mi fece lavare e asciugare, mi condusse nel suo ufficio e mi assicurò di essersi occupato del mio caso con benevolenza e spirito di comprensione. […] Aveva informazioni sulla mia famiglia e sulle difficoltà che mettevano in pericolo la continuazione dei miei studi. […]»
«In poche parole» interruppe don Paolo «quel funzionario le propose di mettersi al servizio della polizia. Lei che cosa rispose?»
«Accettai»

Murica si tormenta per questa scelta, benché la sua vita dipenda dal sussidio che la polizia gli fornisce in cambio delle informazioni. Durante la militanza incontra una ragazza che gli fa conoscere un lato della vita inimmaginabile: il vivere puro, onesto e cosciente. Questa scoperta, però, non fa altro che acuire il suo tremendo rimorso: “Di pari passo si scavava un contrasto incolmabile tra la mia vita apparente e la mia vita segreta. […] Se i compagni del nuovo gruppo mi ammiravano per il mio coraggio e la mia attività, essi mi richiamavano alla coscienza che, in realtà, li tradivo”. Silone, ugualmente tormentato, nel 1930 invia un’ultima lettera all’ispettore Bellone con la quale tronca ogni rapporto e chiede di non essere mai più contattato.
Come gustare, dunque, una mela per metà splendida e per metà marcia? Probabilmente tagliarla fisicamente in due parti, senza però gettare la parte nera e rugosa, in quanto anch’essa è stata fondamentale per la formazione del frutto, elemento che valorizza la mela stessa, in quanto capace, nonostante tutto, di accudire e sviluppare in sé, un lato lucente e succoso. Le mele, gli scrittori, “non sono un clero laico che amministri spiritualmente l’umanità né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri. Molti fra i più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, comunisti adoratori di Stalin; continuiamo ad amarli, a capire il tortuoso e spesso doloroso itinerario che li ha portati a identificarsi con la malattia scambiandola per una medicina e a imparare da essi pure una profonda umanità” (Claudio Magris, Letteratura e impegno: il cuore freddo degli scrittori, «Corriere della Sera», 21 ottobre 2007). Il giudizio all’assaggiatore.



1 commenti:

Lorenzo Natural ha detto...

Una figura perlomeno ambigua.
A prescindere da ciò, mi è piaciuta moltissimo l'impostazione che hai dato all'articolo. Per non parlare della parte finale: bel lavoro, Piero!